di Massimiliano Amato
Alfonso Gatto, su Epoca, mise completamente a nudo la sua anima per descrivere una terra martoriata e ferita a morte: «Sono note, scritte in fretta in questa notte. Il giornale deve uscire e io sono nato a Salerno, conosco piazza Luciani e Porta Catena, quel palazzo Olivieri che dalla strada di Vietri come un piccolo grattacielo scende al mare di via Ligea: sono i luoghi del nubifragio ed erano i luoghi dell’amore, delle prime malinconiche affacciate con la testa sulle mani alla terrazza del golfo. Mi hanno telefonato molti amici. Salerno sono io, Amalfi è Afeltra intento al Corriere a pensare grandi titoli di lutto per la sua piccola repubblica…». E Gaetanino Afeltra trasmetteva ai lettori del quotidiano di via Solferino l’angoscia per le sorti della sua adorata Amalfi: “La situazione è tragica, ma c’ è una pallida luce di speranza nel cuore della gente. Della mia gente”. Mentre sul Corriere d’Informazione un altro grande inviato, Orio Vergani, scriveva: “Le genti del Sud levano verso noi, dalle vecchie immagini e dalle nuove, una mano che non è mendica: che anzi è pudica e che vuole essere, semplicemente, come lo è, fraterna”. Era la fine di ottobre del 1954 e Salerno e un pezzo della Costiera, sconvolte da una tremenda alluvione, balzarono sulle prime pagine di tutti i quotidiani. La televisione, che aveva inaugurato le trasmissioni solo a gennaio, mostrò all’Italia un panorama lunare. Non sfuggì a nessuno che macerie e devastazioni riproponevano, con la forza di immagini brutali nel loro straordinario realismo, i brividi e la maledizione di incubi ancora troppo recenti. Tra case sventrate, fango e detriti, si muovevano, simili a fantasmi, individui dai vestiti laceri e lo sguardo spento, donne scarmigliate coi bambini in braccio, anziani che erano riusciti a rialzarsi dalla tragedia di due guerre e adesso apparivano come spezzati dal peso della sciagura. Dal sudario di fango, una massa grigia che un dio malvagio aveva scagliato, furente, su via Roma spuntavano le ruote di una Giardinetta poggiata su di un fianco, un finestrino ancora aperto. Una bambola di pezza. I resti di una misera cucina economica. La voce impostata, il tono accorato, lo speaker della Settimana Incom dipanava lento il filo dell’angoscia: “E’ stata una notte di ossessione e di terrore. Come un’immersione nell’inferno, con l’acqua al posto del fuoco”. L’acqua, elemento primigenio con cui Salerno e la Costiera avevano millenaria dimestichezza e che in una notte da tregenda aveva mostrato alla città il suo volto più carogna, traditore. L’acqua del Fusandola, gonfiato da 500 mm di pioggia caduti tra il pomeriggio di lunedì 25 ottobre e l’alba tragica di martedì 26, aveva travolto il cuore antico di Salerno. L’aveva investito in pieno, prima schiaffeggiando le vecchie mura delle case, poi sradicando tutto ciò che aveva incontrato lungo il tragitto. Perfino l’antica chiesa di San Michele a Canalone, il quartiere da dove era partita la corsa impazzita che si era biforcata, come deviata dalla mano della Vergine, all’altezza dell’Annunziata: un fiume di fango aveva preso la strada del Teatro Verdi, invadendo i giardini comunali e tracimando sul lungomare, un altro troncone aveva imboccato via di Porta Catena, portando morte e devastazione nel Decumano inferiore.

L’acqua del Bonea, che aveva spazzato via l’abitato di Molina, modificando per sempre la conformazione della Marina di Vietri. E quella del Reghinna Major, che dai Lattari si era abbattuta con furia inusitata sulla cieca presunzione degli uomini che ne avevano ostruito il corso. Ma l’anonimo speaker dalla voce impostata doveva commuovere, non far ragionare: “Il Reghinna Major, il Bonea, il Fusandola, Canalone, hanno spinto le vittime in mare, che verso sera, con il vento di libeccio, ha restituito i corpi”. Alla fine se ne sarebbero contati complessivamente 318: 100 solo nella città capoluogo, un’altra quarantina a Cava de’ Tirreni, il resto tra Vietri, Maiori, Minori. L’alluvione aveva colpito duramente una città, Salerno, che non aveva nemmeno un sindaco regolarmente in carica. L’avvocato Francesco Alario, ex “sciarpa littoria” scampata alla Commissione per l’Epurazione, di rinnovata fede monarchica nel dopoguerra, nel 1952 era succeduto al collega Mario Parrilli, ma era stato dichiarato decaduto a maggio del 1953, in seguito al ricorso presentato da due consiglieri non eletti che avevano denunciato irregolarità alle amministrative dell’anno prima. Il 27 ottobre, fu un commissario prefettizio, il conte Lorenzo Salazar, ad accogliere il presidente del consiglio Mario Scelba che in mattinata, prima di partire per Salerno, aveva incontrato l’ambasciatrice americana a Roma, Clara Booth Luce e il direttore della Foreign operation administration (Foa) Harold Stassen, accettando, come raccontava il Messaggero del giorno dopo, “di impegnarsi con più determinazione contro il Pci a patto di avere un adeguato sostegno internazionale”. Si era in piena Guerra Fredda, e la Booth Luce, che a distanza di 24 dal primo ministro amico arrivò a Salerno a testimoniare la solidarietà del grande Paese fratello, era impegnata in quegli anni in una frenetica attività anticomunista e antisocialista.

Il presidente del consiglio, che era accompagnato dal ministro dei Lavori Pubblici Giuseppe Romita, era venuto ““a recare conforto ai feriti all’ospedale Ruggi d’Aragona e ai superstiti nelle zone colpite dalla sciagura”, scandiva solenne lo speaker della televisione di Stato. A “bilanciare” le visite di Scelba e dell’ambasciatrice americana, l’arrivo a Salerno e in costiera del capo dei socialisti, Pietro Nenni, il 30 ottobre. Nenni, che non dimenticava mai di essere soprattutto un giornalista, ne ricavò una bellissima testimonianza, pubblicata sull’Avanti! del 31 ottobre. Il 1° novembre, invece, fu la volta del Capo dello Stato. Un compunto e commosso Luigi Einaudi, ripreso dalla televisione mentre varca il portone della Prefettura. Le frane avevano interrotto la linea ferroviaria Napoli-Salerno all’altezza di Cava de’ Tirreni. Il convoglio presidenziale fu costretto a fermarsi alla stazione di Nocera Inferiore, da dove poi Einaudi, che era accompagnato dalla moglie, raggiunse prima Cava, poi i comuni della Costiera colpiti dall’alluvione e, infine, il capoluogo. Negli archivi del Quirinale, consultabili on line, c’è il diario di quella storica visita, cominciata alle 6.40, quando il treno presidenziale giunse alla stazione di Nocera Inferiore, dalla quale ripartì alle 17.45 alla volta di Roma Termini. Ad accompagnare Einaudi nelle tappe nel capoluogo del suo viaggio, il segretario generale del Comune, il commendatore Alfonso Menna. La malanotte era già alle spalle. Il futuro di Salerno andava delineandosi. Cominciava un’altra fase, che prendeva le mosse proprio dalla faglia, emotiva e politica, apertasi nella storia della città in quelle ore tragiche di pioggia torrenziale e terrore.

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