Piero Bevilacqua è intervenuto nei giorni scorsi su il Manifesto ponendo alcuni interrogativi di fondo sull’idea di Storia che si afferma nel lavoro di un giornalista come Paolo Mieli e che sembra essere diventato, oltre ogni merito ragionevole, il riferimento massimo del nostro passato. Un passato dal quale, nelle sue ricostruzioni, scompaiono troppo spesso gli umili, il mondo del lavoro, gli oppressi di ogni epoca, con le loro aspirazioni di libertà e con le loro idee.

di Piero Bevilacqua

La Grande storia è un fortunato programma televisivo che dal 1997 porta nella casa degli italiani frammenti visivi e anche puntali commenti di alcune delle pagine più drammatiche del ‘900. Grazie a documentari, foto d’epoca, testimonianze originali e spesso di prima mano, momenti salienti del nostro passato si fanno spettacolo per la fruizione del grande pubblico. Le trincee della prima guerra mondiale, ma soprattutto la marcia su Roma, Mussolini, il re Vittorio Emanuele III, i gerarchi fascisti,l’ascesa del nazismo, Hitler, le sue donne, i suoi compagni e i suoi generali, la guerra e le varie campagne militari, i bombardamenti delle città, la Shoa e i campi di sterminio, lo sbarco degli Americani in Europa, la sconfitta del nazifascismo, il dopoguerra, la ricostruzione,ecc. Grazie alla drammatica spettacolarità delle immagini, la storia si fa vicenda epica che affascina ed emoziona, mentre certamente contribusce a gettare qualche luce sul nostro recente passato e a tenerne desta la memoria.

Piero Bevilacqua


E tuttavia, questo modo di rappresentare la storia, diventato con gli anni sempre più insistito ed esclusivo, reca con sé un pesante carico di ideologia che va messo in luce. A partire dal titolo della trasmissione. Grande storia, perché? Perché a guidarla sono i grandi uomini, dittatori, generali, capi di stato, gerarchi, uomini politici di vario rango? E’ vero che c’è posto anche per le grandi masse, ma sempre come soggetto passivo, vittime, oggetto di comando o persecuzione. Non ci sono dubbi che la guerra sia un grande evento storico, ma i popoli, i cittadini, gli uomini comuni, sono solo la massa dannata che subisce i comandi di un pugno di capi.
Sul piano stroriografico siamo di fronte a un ritorno indietro di poco meno di un secolo, in coerenza con l’involuzione generale di questa fase della storia del mondo e del grave scadimento culturale che segna in particolare la vicenda italiana degli ultimi decenni. Ricordo che questo modo di fare storia venne definita évenémentielle, cioé un racconto di eventi, dagli storici delle Annanles, fondata nel 1929 da due storici eminenti: Marc Bloch e Lucien Febvre. Quella definizione svalutativa, riferita al fatto che sino ad allora gli storici avevano generalmente raccontato solo vicende politiche, eventi diplomatici e militari, cronache di re e capi di stato, venne accompagnata e seguita da una massa spettacolare di studi e ricerche, dei due fondatori e di altri storici, destinata a rivoluzionare per sempre la disciplina.

Marc Bloch

Entravano allora sulla scena, per la prima volta, titolari di storia a tutti gli effetti e non più masse anonime manovrate dall’alto, i contadini con le loro condizioni di vita, lavoro, mentalità. Tutta la multiforme stoffa della vita umana, l’alimentazione, la vita sessuale, le pratiche di lavoro, i modi dell’abitare, divennero ben presto materia di storia. Sicché tutti coloro che non avevano nome né cognome, sterminate masse prima senza storia, ne divennero i protagonisti. Si è trattato di una gigantesca democratizzazione della storia, sino ad allora narrazione privilegiata delle élites. Bloch e Febvre anticipavano il grande processo di emancipazione politica e culturale che sarebbe seguita alla guerra mondiale. Ma un altro fondamentale apporto venne da quella svolta, uno dei contributi più alti del sapere storico alla cultura del ‘900: l’ingresso dello spazio nella vicenda storica e una nuova dimensione del tempo. Fernand Braudel ha dato forse il più alto saggio, con la sua Méditerranée, della possibilità che la geografia, i monti, i fiumi, le pianure diventino soggetti di storia in cooperazione con le popolazioni. Mentre ha mostrato che il tempo storico non è solo quello degli eventi, ma sopratttutto quello della lunga durata, dei vasti processi sotterranei e strutturali in cui le società sono immerse e in cui le masse sono protagoniste.


Allora diciamo che il ritorno insistito della storia politica ed événementielle in TV non giova alla cultura nazionale. Insinua la vecchia idea che la storia la fanno i capi e indirettamente rivaluta vecchie ideologie autoritarie. Ma soprattutto perpetua una millenaria rimozione, la cancellazione che da sempre la storia ha operato della natura. In questa narrazione di eventi e grandi uomini i protagonisti vivono come angeli o demoni, staccati dal suolo. Ma proprio noi italiani non possiamo dar credito a una ricostruzione del passato che cancella le vicende del nostro territorio e il lavoro del nostro popolo. Noi siamo diventati un grande paese moderno, grazie a una gigantesca opera di risanamento e rimodellamento del nostro habitat. Ancora nel 1865 una inchiesta governativa accertava la presenza di oltre 1 milone di ettari di acquitrini nella Penisola, dove imperversava la malaria. Tecnici e contadini, ingegneri e grandi masse, sono stati i protagonisti di questa epopea, così come della diffusione della nostra agricoltura, dell’edificazione delle nostre città, di canali e ferrovie, della ricostruzione degli abitati dopo i tanti terremoti, di tutte le opere di pace che costituiscono la stoffa di quella che è la nostra Grande Storia.

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1 commento

  1. Sottoscrivo ed aggiungo:
    Fin dall’inizio ho seguito con grande passione “La grande storia” Conservo ancora delle videoregistrazioni che più volte sono state per me ottimi strumenti didattici per rendere quanto più efficace possibile il mio “insegnare storia”.
    Da qualche anno ogni volta che mi ritrovo in televisione il persistente e ormai onnipresente Paolo Mieli spengo.

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