Dopo l’intervento che ha aperto la discussione ( https://www.infinitimondi.eu/2020/07/09/come-sa-di-vecchio-questo-decreto-semplificazione-della-vita-alle-organizzazioni-criminali-questo-si-le-organizzazioni-ambientaliste-raccolgano-intorno-a-se-in-una-grande-assemblea-il-meglio-d/ ), ora la riflessione di Alfonso De Nardo.

MA LA SEMPLIFICAZIONE E’ UN’ALTRA COSA …
Condivido la preoccupazione di Gianfranco per le prime indiscrezioni sul cosiddetto decreto semplificazione.
Dico però che è necessario un serio approccio critico alla questione.
Questo decreto ‘sblocca’ per un anno (fino al 31 luglio 2021) le opere pubbliche, commissariando alcuni grandi interventi e permettendo l’abbandono delle gare d’appalto (affidamenti diretti per lavori e servizi fino a 150.000 €, trattative negoziate fino a 5,2 M€). Chiariamolo subito: non c’è alcuno strappo della direttiva europea sugli appalti, che individua le soglie della sua inapplicabilità rispettivamente in 5,186 M€ per lavori e in 134.000 € (o 207.000 €) per forniture e servizi. Con tutto il sacrosanto timore delle infiltrazioni di mafie e camorre (per altro mai scongiurate dalle vigenti normative), è insopportabile che le norme italiane portino sempre l’asticella del rigore a un livello superiore a quello europeo, nelle soglie economiche come nei parametri quantitativi sottoposti a limitazioni di legge dalle diverse discipline. Salvo a farli rispettare questi limiti più gravosi, che è cosa ben diversa in un paese dove è norma trovarsi con un insensato limite di velocità o divieto che nessuno rispetta e nessuno fa rispettare. Tanto l’importante è che ci sia il segnale di divieto, o il cartello, la cui funzione precipua è di esonerare da responsabilità il pubblico ufficiale.
Il limite stabilito dal decreto non è allora troppo alto, è semplicemente europeo.
Le deroghe alla legge sugli appalti hanno comunque valore per un solo anno. Che cosa si riesce a fare in Italia in un anno? Se si tratta di aprire nuovi cantieri varrà allora la pena di parlare solo di interventi già finanziati e già progettati. Secondo il CRESME sono 199 i miliardi già da tempo disponibili (ma dormienti) per le infrastrutture, di cui 109 per opere ferme alla fase progettuale. Di quale green new deal vogliamo parlare, se qui si tratta solo di ‘resuscitare’ progetti e finanziamenti, grandi e piccoli, che intasano da decenni i cassetti di amministrazioni centrali e di enti locali, in attesa di pareri, VIA, conferenze di servizi, di dissequestri, di contenziosi e transazioni, di scioglimenti di riserve, di processi penali e civili interminabili?
Festeggerei se si riuscisse a spendere in un anno la metà della metà di questa somma, per lavori grandi e piccoli, che darebbero almeno uno straordinario contributo alla ripresa occupazionale del paese.
E il new green deal?
Condivido la ‘chiamata alle armi’ del mondo ambientalista e sindacale.
Ce n’è bisogno per rivendicare una seria impronta di sostenibilità ai nuovi programmi di spesa dei fondi comunitari, per superare i modelli del passato recente che nelle regioni meridionali hanno provocato dispersione di risorse senza conferire significativo impulso alla coesione territoriale.
Ma anche qui è importante che i piedi siano appoggiati su un piano stabile, piuttosto che sulle periclitanti evocazioni ideologiche nelle quali sovente incappa la cultura ecologista. Un comunicato di Italia Nostra di qualche giorno fa dice no allo scempio delle foreste italiane che l’attuazione del decreto semplificazione provocherebbe con gli incrementi del prelievo annuo dalle attuali percentuali del 18% fino al 50% ed oltre, e quindi con la distruzione totale del paesaggio forestale italiano, con la futura desertificazione del nostro territorio, con effetti devastanti sul dissesto idrogeologico. Le vestali si strappano i capelli in realtà per percentuali che non riguardano la superficie forestale, ma il solo incremento annuo naturale. Il fatto che nel Paese sia utilizzato oggi solo il 18% dell’incremento (che è come prelevare da un deposito ogni anno il solo 18%, non del capitale, ma dell’interesse maturato sul capitale) è invece uno scandalo, in un’Europa che utilizza in media il 70% delle proprie risorse legnose, riducendo così fortemente le importazioni (spesso illegali) dai paesi tropicali. In teoria il prelievo potrebbe arrivare al 100% dell’incremento e ciò non comporterebbe alcuna erosione del capitale naturale, alcuna distruzione o desertificazione. Piuttosto un dubbio fondato c’è sulla possibilità che con il passaggio da una percentuale all’altra enunciato in un decreto si possa davvero ridare fiato a un comparto produttivo giunto quasi all’estinzione per ben altri problemi.
In compagnia delle vestali dell’ambientalismo non credo si potrà mai arrivare a una ‘correzione di rotta’ utile.
Altri problemi sono più seri.


In definitiva quelle previste dal decreto non sono (salvo qualcuna) semplificazioni, ma piuttosto scorciatoie. Lo dice tra gli altri con esemplare chiarezza Sabino Cassese (Corriere della Sera, 6 luglio 2020), stigmatizzando un decreto che contrabbanda interventi di emergenza (destinati a durare brevemente) come misure di semplificazione e invitando a semplificare davvero le leggi secondo il principio ‘michelangiolesco’ del togliere materia, sfoltendo la selva degli elementi normativi ridondanti.
Del resto il vero tema non sono i progetti e le opere ‘in giacenza’, ma il ‘diluvio’ di soldi che arriverà dall’Europa: 180 miliardi del recovery found (speriamo), cui si aggiungono quelli già impegnati con variazioni di bilancio dal governo, i 36 del MES, i finanziamenti della BEI. Soldi che dovranno essere quasi tutti spesi per investimenti, quindi per consentire la risalita del PIL.
Rispetto a queste risorse è indispensabile e urgente un cambio di passo. E qui occorre un contributo solido, forte di un forum che deve raccogliere il meglio della cultura ambientalista per costruire un approccio pragmatico alla costruzione di un piano di sviluppo sostenibile per le nuove generazioni.
Qui occorre davvero pensare al nuovo patto verde. A un’Italia più connessa, meglio difesa dai rischi naturali, libera da emissioni nocive e da intossicamenti di terre e acque come dalla morsa del consumo di suolo, con beni culturali e naturali finalmente agibili. A un’Italia che sviluppi davvero istruzione e ricerca per trattenere i suoi giovani. A un’Italia riequilibrata tra Nord e Sud che non ci sarà mai se non vi saranno seri investimenti nel Mezzogiorno, a partire dai collegamenti ferroviari veloci del corridoio scandinavo – mediterraneo (così rubricato nelle strategie europee), fino a Reggio Calabria, Taranto e Palermo. C’è bisogno di una visione del futuro, di idee e progetti innovativi.
Non si vedono all’orizzonte.
Già da ora dovremmo avere centinaia di progetti per adeguare gli ospedali italiani alla gestione delle epidemie e per renderli antisismici. Invece abbiamo già dimenticato che all’Aquila, nel terremoto del 2009, è crollato proprio l’ospedale, inaugurato da soli nove mesi. Allora perché non correre per la predisposizione di 1000 progetti di adeguamento? Sembra invece, in questo paese incredibile, che del prestito europeo che potrebbe rendere possibile un tale programma a interessi zero, non vi sia bisogno. O che comunque se ne possa parlare più in là, col fresco autunnale, come dice il nostro primo ministro, evidentemente rallentato nei movimenti da una pesantissima, pentastellata palla al piede. Prevalgono ancora ideologismi e bandierine. Quale politico, tra quelli che esorcizzano oggi il MES, avrà d’altra parte il coraggio di proporre davvero un piano per la Sanità fondato sull’indebitamento ‘autarchico’, con interessi almeno venti volte maggiori? Il rischio è che alla fine non si riesca a scegliere tra la paglia del bisogno di risorse e il fieno della preclusione ideologica e si faccia la fine dell’asino di Buridano.

Certamente i finanziamenti europei, anche se vi fossero già oggi piani e progetti, non potrebbero essere spesi in un anno
. Le attuali scorciatoie non servono ad altro che a sistemare, se tutto va bene, le vecchie giacenze, compreso qualche antico progetto lunardiano della ‘legge obiettivo’.
Dunque, che si cerchino nell’immediato scorciatoie è pure comprensibile. Ci sta. In questa direzione spinge pure la forte suggestione data dal ponte Morandi e dal successo della sua veloce ricostruzione.
Ma chi vieta di avviare subito una riforma ‘vera’ della legislazione sugli appalti e sulle opere pubbliche, dei testi unici sull’ambiente e sul paesaggio, delle norme di prevenzione della corruzione, una riforma ispirata questa volta davvero a un principio di reale ed efficace semplificazione? Sicché dopo il breve periodo di ‘allentamento’ delle norme di cui si discute oggi si possa transitare finalmente verso un assetto normativo meno intricato, tale da non ostacolare il new green deal prossimo venturo?
Non è nell’immediato che potranno essere spese le risorse del recovery found e anche negli anni a venire sarà necessario saper spendere rapidamente e bene per la realizzazione delle opere finanziate dall’Europa, senza rischiare, come più volte è avvenuto in passato, di restituire il danaro non utilizzato e senza incorrere, di contro, nell’infrazione delle regole europee sulla concorrenza.
Sembra che ora l’unico modo per sbloccare le procedure di appalto sia la rinuncia alle gare, a favore delle trattative private e degli affidamenti diretti. Per quanto l’ipotesi possa essere limitata a un tempo breve e rimanere contenuta entro le soglie europee, da essa si spande comunque un bagliore sinistro per chi teme – a ragione – il più facile insinuarsi di corruzione e malaffare nella realizzazione delle opere pubbliche.
Ma alla stessa velocizzazione dei processi si potrebbe giungere – ove si mettesse mano a una verifica rigorosa e puntuale delle attuali normative – in una maniera diversa, non contrastante con le esigenze di pulizia e trasparenza negli appalti e con gli indirizzi europei a tutela della libertà di concorrenza negli appalti.
Si tratta di agire con precisione chirurgica in un’azione di ‘diboscamento’ dell’infinità di norme inutili e di appesantimenti che provocano il patologico rallentamento dei lavori pubblici in Italia, intervenendo su tutti i diversi segmenti del processo, dalla progettazione fino all’esecuzione dell’opera, di rendere semplici ed efficienti (è un ossimoro solo apparente) le leggi di governo del territorio, dell’ambiente, degli appalti.
Mi limito per brevità a un solo esempio.
L’art. 73 dell’antico regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato, approvato nel lontano 1924 e non so se e quando abrogato, prevede tra gli altri un sistema di aggiudicazione che, senza contravvenire ai principi di concorrenza e di rotazione, è impermeabile a ogni forma di condizionamento interessato. Si tratta del metodo della scheda segreta, ormai abbandonato da decenni a favore di altre diavolerie: il ribasso limite veniva stabilito sulla base di valutazione tecnico-economica della più elevata convenienza per l’amministrazione pubblica e veniva indicato in una scheda segreta; la gara era vinta dall’operatore la cui offerta si avvicinava di più, senza superarlo, al ribasso segreto. L’affidamento era così rimesso al caso, che è il più imparziale e il meno condizionabile arbitro di gara. La scelta premiava comunque solo operatori che erano in possesso dei titoli e delle qualifiche necessari per concorrere alla gara, quindi non si opponeva alla qualità dell’esecuzione. Consentiva ribassi prossimi e non inferiori a quello ottimale scelto dall’amministrazione e impediva perciò di scivolare (come purtroppo avviene frequentemente quando il criterio di selezione è quello del massimo ribasso) in offerte anomale destinate a compromettere la qualità del risultato.


Per la verità quel sistema aveva un difetto, che probabilmente ne ha decretato la scomparsa. Il ribasso segreto era sì nella sola mente del presidente di gara, ma doveva comunque essere trascritto in un foglio da qualcuno e racchiuso in una busta da qualcun altro. E poteva capitare che il ribasso non rimanesse segreto proprio a tutti.
Una sua reinterpretazione aggiornata potrebbe con estrema facilità emendare la pecca. Basta che la percentuale segreta, determinata sempre in modo da dare il massimo vantaggio all’amministrazione, non sia più segreta, ma di pubblico dominio. Ogni concorrente è chiamato a presentare una percentuale di miglioramento dell’offerta base, entro un intervallo definito, e vince la gara chi si avvicina maggiormente a essa, sulla base di un semplice algoritmo legato a un numero intero generato casualmente da un computer o estratto a sorte dopo la presentazione delle offerte.
Le gare si svolgerebbero così in un solo giorno, senza nessuna delle defatiganti procedure a cui oggi è sottoposto da astrusi bandi l’operatore economico che voglia partecipare a una selezione. Non occorrerebbe costituire commissioni di gara chiamate a stilare graduatorie sulla base di sempre opinabili attestazioni di qualità dell’offerta. I lavori potrebbero cominciare subito dopo la conclusione della gara senza timore di ricorsi e opposizioni e dei relativi giudizi e senza rischio di offerte anomale da vagliare con ulteriori procedure, anche queste esposte a opposizioni e a contenziosi amministrativi. Nessun rischio di accordi, cordate o espedienti che possano inficiare il risultato. D’incanto scomparirebbe, e potrebbe essere depennato dal codice penale, lo stesso reato di turbativa d’asta che riempie innumerevoli fascicoli giudiziari e blocca sine die altrettanti procedimenti. Tutto ciò senza contraddire, neanche per interventi modesti, il principio di concorrenza e il criterio di scelta dell’offerta economicamente più vantaggiosa imposti dalla direttiva europea. Diventerebbe irrilevante il tema della molteplicità delle stazioni appaltanti e sarebbe ridimensionata la funzione di ‘magistratura preventiva’ dell’autorità anticorruzione.
Come dicevo è solo un esempio.
Ma l’intero corpus legislativo italiano è costellato da sovrapposizioni, duplicazioni, interferenze e conflitti, aggravati sempre dalla deficiente organizzazione e dalla scarsa qualità di una burocrazia sempre attenta al rispetto delle procedure formali, mai al risultato, mai alla velocizzazione e fluidificazione dei processi dai quali dipende la crescita civile ed economica del Paese.
Da questo ‘muro’ normativo rialzato oltre misura dalla recente sedimentazione di strati mal sovrapposti vanno sfilati molti mattoni, quanti ne occorrono per alleggerirlo senza farlo crollare, per rimuovere gli strati pencolanti e sconnessi senza compromettere la stabilità del paramento di base, ovvero dei principi fondamentali garantiti dalla Costituzione repubblicana. Contemporaneamente è necessaria una rimodulazione dei modelli applicativi (diffusione di procedure informatizzate, unificazione delle banche dati, interlocuzione interattiva con un’utenza che è sempre più composta da nativi digitali) accompagnata a un profondo rinnovamento delle risorse umane impegnate nell’apparato pubblico, a un ‘ringiovanimento’ della burocrazia.
Purtroppo non arrivano segnali dell’esistenza di un lavorio del genere, o dell’interesse della politica a intraprenderlo per tempo, prima che si ricaschi in una nuova emergenza.
Su una cosa ha ragione il nostro Presidente del Consiglio: la legge sulla semplificazione è la madre di tutte le riforme. Da sola, con il superamento degli attriti burocratici che frenano idee e intraprese, allontanano l’esecuzione delle opere pubbliche e scoraggiano gli investimenti nel paese, essa riuscirebbe a garantire l’incremento annuo di qualche punto di prodotto interno lordo. E consentirebbe di mettere le ali al grande programma di sviluppo sostenibile e di rinnovamento di cui il Paese ha bisogno per lasciarsi alle spalle la drammatica emergenza economica ingenerata dalla pandemia.
Ah, se dagli annunci si passasse alle decisioni!

Alfonso De Nardo

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3 commenti

  1. Intervento puntuale e dettagliato:sono da condividere pienamente le osservazioni riportate. A mio parere occorre inserire nella struttura degli enti pubblici nuovo personale aggiornato e motivato.

  2. Come sempre, l’ing. De Nardo è preciso, conciso ed esaustivo. Va dritto al nocciolo del problema con cognizione di causa e competenza e propone soluzioni pratiche, immediate e non solo accademiche. È un ingegnere vero, secondo la miglior tradizione della scuola meridionale italiana, una concreta ed invidiabile risorsa del ns Paese troppo spesso frustrata, umiliata e sprecata. Troppa politica, troppe parole e pochi fatti semplici ed efficaci.

  3. Alfonso ho letto 2 volte il tuo pezzo per capire di più e perché mi ha ” preso” il tuo rigore e la chiarezza espositiva incisiva.

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