Trovate il Saggio in originale su https://www.che-fare.com/giordano-comunita-rural-hub-nessuno-solo/

di Alex Giordano

“Lo Chthulucene […] deve raccattare la spazzatura dell’Antropocene, la tendenza allo sterminio del Capitalocene, e sfrangiare, tagliuzzare e stratificare a più non posso come un giardiniere matto, creando così un ammasso di compost molto più caldo e accogliente per tutti i passati, i presenti e i futuri ancora possibili”.
(Donna Haraway)


We are in trouble!

In questi mesi di preoccupazione collettiva per un virus di cui si conosce ancora troppo poco e che ci sta rivoluzionando il quotidiano, vengono in mente le parole della filosofa Donna Hardaway che ci invita a pensarci legati ad un’infinità di creature e ci ricorda che con-divenire vuol dire che enti ontologicamente eterogenei diventano ciò che sono solo in un processo relazionale. Nature, culture e soggetti non preesistono all’intreccio, ma divengono insieme incessantemente.

C’è una soluzione possibile per non capitolare in questo mondo danneggiato? Secondo la filosofa la soluzione è interagire: stare da soli vuol dire soccombere alla disperazione o ad una fumosa speranza, praticare “simpoiesi” è invece un atteggiamento di buon senso, capace di renderci ontologicamente creativi.



In accordo con questi principi di fondo noi del gruppo di ricerca-azione Societing, con la task force RuralHack dedicata ai temi dell’innovazione nel foodsystem, stiamo facendo da qualche anno un lavoro non SU ma CON le comunità rurali, creando ponti tra ricercatori, scienziati e i vecchi maestri della terra; tra hacker, artisti e contadini; tra realtà rurali delle aree interne e centri metropolitani. L’ipotesi che stiamo analizzando e sperimentando è una via mediterranea di sviluppo, che considera innovazione tecnologica e sociale come parte dello stesso processo.

Nella nostra idea di modello mediterraneo le tecnologie non sono per forza causa di alienazione ed allontanamento dalla tradizione.
Nella nostra idea di modello mediterraneo le tecnologie non sono per forza causa di alienazione ed allontanamento dalla tradizione, dalla ruralità, dall’artigianalità della produzione ma possono diventare il mezzo per immaginare insieme ai giovani, agli artigiani, alle piccole imprese, agli imprenditori sociali, alle start up, alla ricerca 4.0, alle istituzioni, …un senso diverso della produzione, del lavoro, dell’ambiente e della società diventando, quindi, la chiave dello sviluppo sostenibile, a tutela della biodiversità, dell’ambiente e delle persone.

In questo modello vengono privilegiati sistemi aperti (open source): open software, open data e anche ricerca partecipata sono modalità che, a nostro avviso, favoriscono processi socio-economici maggiormente sostenibili e redistributivi. L’idea è che i singoli e le comunità possano sviluppare insieme nuove forme di valore.

Con questi sistemi si interviene sulla filiera del cibo modificando la logica di base, partendo dall’idea che il cibo da commodity debba tornare ad essere commons cioè bene comune. Questo è un passaggio-chiave che non si acquisisce con l’apposizione di etichette o attraverso qualche forma di certificazione ma appartiene al sentimento condiviso e si conferma con le scelte che i consumatori fanno quotidianamente, smettendo di essere agiti e tornando ad essere liberi cittadini che si informano e decidono in autonomia. Come ci insegna la storia della Dieta Mediterranea, che proprio nelle zone in cui principalmente operiamo (il Sud Italia, la Campania, Napoli, il Cilento) è nata ed è stata formalizzata
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, è una sensibilità che appartiene alla cultura delle persone, ai legami sociali, alla cura per il paesaggio e per le risorse naturali.

Per altro è ormai chiaro come il sistema alimentare e la produzione agricola siano strettamente collegati con i più grandi problemi che il mondo si trova ad affrontare: cambiamento climatico, rifiuti, sicurezza alimentare, disuguaglianza e sfruttamento delle persone, qualità dell’acqua e del suolo, perdita della biodiversità, fame da una parte del mondo e, scusatemi se sono proprio io a dirlo, obesità dall’altra. Sono tutte problematiche legate al cibo, alla sua produzione, alla sua trasformazione ed alla sua distribuzione.

Nei diversi tentativi di far fronte a queste problematiche le soluzioni scientifiche, da una parte, e le politiche pubbliche, dall’altra, spesso non tengono in debita considerazione la complessità. Inoltre i processi di conoscenza che guidano cambiamenti, trasformazioni e innovazione sono troppo spesso ideati, prototipati e sviluppati distanti dai contesti ai quali si rivolgono. Vale, di sicuro, per i tentativi di applicazione delle tecnologie 4.0 alle PMI e anche a settori molti legati alla tradizione come l’agricoltura.

E c’è anche un altro aspetto critico da evidenziare: l’innovazione che cancella il passato non ha memoria dell’identità dei luoghi e dei contesti nei quali si inserisce.

Come dice il mio amico/maestro Adam Ardvisson dalle pagine del suo ultimo libro Changemaker? Il futuro industrioso dell’economia digitale, il progetto moderno è stato quello di sostituire l’economia industriosa con l’economia industriale, ovvero un’economia che ruota intorno alle grandi organizzazioni con grandi risorse a disposizione.

Importante tenere in considerazione che con la digitalizzazione questa industriosità sta tornando e sta diventando centrale per l’economia.

Inoltre la necessità di cambiamento, insieme alla perdita di riferimenti, ci stanno portando verso il futuro industrioso dell’economia digitale. “I nostri tempi sono contrassegnati da un pessimismo dell’intelligenza e un ottimismo della volontà -scrive Adam – . Il nostro pessimismo intellettuale si manifesta nel fatto che nessuno sembra avere un’alternativa seria alla difficile situazione in cui ci troviamo, eppure il nostro cocciuto ottimismo fa sì che, nonostante l’assenza di alternative, continui a esserci un desiderio generale di cambiamento. Cambiare il mondo è diventata la parola d’ordine di una nuova generazione”.

Serve un nuovo paradigma

“L’impatto sociale, economico e politico dell’estrazione di valore è immenso. Prima della crisi finanziaria del 2007, la quota di reddito dell’1% più ricco della popolazione degli Stati Uniti crebbe dal 9,4% nel 1980 a uno sconcertante 22,6% nel 2007. E la situazione continua a peggiorare. Dal 2009 le disuguaglianze sono cresciute ancor più rapidamente di prima del crollo finanziario del 2008”
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La nostra economia ha generato disuguaglianze enormi: pochi attori si trovano in una posizione dominante che determina un potere negoziale che incide in modo forte sulle dinamiche dell’economia, sulle scelte politiche generando importanti conseguenza socio-culturali.

L’attuale paradigma del capitalismo estrattivo a partire dagli anni ’40 condiziona pesantemente anche il sistema di produzione, trasformazione, distribuzione e acquisto del cibo. La filiera del foodsystem è molto lunga – con interazioni forti tra il livello internazionale, quello nazionale e quello locale – e gli orientamenti che la guidano sono sempre più centrati sulle logiche prepotenti del mercato.

Nel paradigma attuale anche il potenziale dell’innovazione tecnologica 4.0 diventa un acceleratore dell’agricoltura convenzionale invece di diventarne l’antidoto.
Nel paradigma attuale anche il potenziale dell’innovazione tecnologica 4.0 diventa un acceleratore dell’agricoltura convenzionale invece di diventarne l’antidoto, come viene troppo semplicisticamente venduto dallo storytelling mainstream. Si dice, infatti, che le tecnologie possano accelerare la creazione di un sistema alimentare più sostenibile ed equo. In realtà, è d’obbligo l‘uso del condizionale: le tecnologie (anche quelle 4.0) potrebbero aiutarci nel migliorare il sistema alimentare, potrebbero garantirci alimenti più sani e cibo sicuro, potrebbero avere effetti positivi su tutta la catena alimentare e favorire la gestione di quei grandi problemi che si stanno presentando come gravi questioni, tutte aggrovigliate l’una all’altra.

Potrebbero!

Ma non all’interno dell’attuale paradigma.

Il cambio di paradigma che auspichiamo non è certamente voluto con l’intento di tornare indietro, ad un passato rurale, a sua volta narrato sulla base di un immaginario bucolico che non corrisponde alla vita di fatica e stenti che in molte campagne tante famiglie hanno dovuto affrontare, vedendo nelle città e nell’abbandono della terra la loro emancipazione e il sogno di una vita migliore.

L’ispirazione del diverso paradigma nel quale far crescere occasioni di sviluppo sostenibile ci arriva dai principi della Dieta Mediterranea che fonda i suoi valori sull’identità e la comunità, sulla salute e la cura del territorio, sulla biodiversità e la conservazione del paesaggio, sulla condivisione e il riconoscimento delle diversità, sulla tradizione e la creatività. D’altra parte è proprio per tutto questo che l’UNESCO l’ha riconosciuta Patrimonio Immateriale dell’Umanità
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Questi valori, secondo noi, possono condizionare l’introduzione e l’utilizzo delle tecnologie a partire da quelle del 4.0 (Big Data, IoT, intelligenza artificiale, ecc.) e orientare l’innovazione digitale diventando la chiave di senso dello sviluppo sostenibile, a tutela della biodiversità, dell’ambiente e delle persone.

Il ruolo della ricerca aperta. Si, ma in concreto?

I processi di cambiamento, trasformazione e innovazione sono scintille che possono partire dall’ispirazione individuale, da istanze collettive; da iniziative più o meno strutturate e più o meno condivise a livello istituzionale. Non ci sono regole generali e ogni attore ha una sua potenziale funzione di innesco, di supporto, di validazione, di amplificazione, … dei processi di innovazione.

Noi, in questi anni, abbiamo fatto partire i nostri percorsi sperimentali in tutti i modi possibili dando continuità, quotidianamente, ad un lavoro di tessitura simile a quella di un artigiano che ricava sapere da ogni intervento e in ogni fase del processo operativo e, con un adattamento continuo, agisce con l’intento del miglioramento funzionale ed estetico. Un salto di scala è stato fatto collaborando con l’Università Federico II° di Napoli, potendo svolgere anche un ruolo da abilitatori della trasformazione digitale; inoltre è stata l’occasione per dare sistema alle riflessioni e alle analisi fatte sui processi di innovazione sociale e tecnologica.


Produrre nuove forme di intelligenza sociale e modalità di scambio, attraverso occasioni e dispositivi che mettono in relazione le intelligenze delle comunità.
Per accompagnare i processi di cambiamento e con l’intento di studiare, mettendola in pratica, questa nostra idea di modello mediterraneo, con il Programma di ricerca-azione Societing 4.0 e con la sua task force Rural Hack, stiamo sperimentando una gamma di strumenti e metodi per l’innovazione dell’agricoltura, in grado di mappare problemi e soluzioni attraverso diverse forme tra cui metodi digitali, studi comparativi e meta-analisi. Questi metodi possono produrre nuove forme di intelligenza sociale e modalità di scambio, attraverso occasioni e dispositivi che mettono in relazione le intelligenze delle comunità (intelligenze umane, intelligenze artificiali, intelligenze collettive) attraverso eventi di networking degli agricoltori, cluster di agricoltori, fattorie dimostrative, feste popolari, test dimostrativi e consultazioni; e attraverso una moltitudine di spazi informali in cui agricoltori e cittadini possono interagire con il sistema dell’agricoltura (compresi veterinari, consulenti, commercianti di sementi e mercati del bestiame).

Il ruolo di ponte che Societing 4.0 e Rural Hack agiscono costantemente ha anche favorito l’incontro tra le imprese del territorio (comprese quelle agricole) e il sistema della conoscenza prodotta all’interno dell’Università. A questo fine il nostro team di lavoro ha mappato, prima di tutto, i processi di ricerca in corso presso i vari Dipartimenti dell’Università Federico II° di Napoli. Questo è stato il modo che ci ha consentito di conoscere (e far conoscere) una parte dell’offerta, cioè le soluzioni tecnologiche che l’Università produce e che possono essere proposte a imprenditori e comunità. Per classificare le attività di ricerca in corso presso i vari Dipartimenti universitari sono stati definiti dei topic che ci consentono di sapere oggi che, per esempio, alla parola “pomodoro” corrisponde l’elenco di tutti coloro che, all’interno dell’Università, lavorano sul pomodoro: da Scienze economiche, che si occupa del management delle esportazioni, a Scienze dei materiali che magari dalle bucce ricava una bioplastica.

In più grazie alla lungimiranza di una Camera di Commercio particolarmente illuminata come quella di Salerno che ha siglato un protocollo reale con l’Università (non uno scambio di loghi, ma una progettualità profonda e condivisa fatta di duro lavoro sul campo e molto orientata ad obiettivi tangibili) ci ha permesso di incontrare una moltitudine di piccoli o piccolissimi imprenditori delle aree interne della Campania, che sono molto distanti dalle logiche del 4.0, e questo ha reso necessario l’elaborazione di un metodo per affrontare con loro il tema e cominciare a immaginare cambiamenti organizzativi in chiave tech.

In questo caso la strategia di penetrazione è stata lo storytelling (al contrario) cioè l’ascolto dei loro racconti, raccolti anche attraverso video-interviste dalle quali è sempre emerso chiaramente come la storia delle imprese sia legata, in modo forte, alla storia e alle scelte fatte dall’imprenditore. Questi incontri sono stati preziosi perché hanno consentito al gruppo di lavoro di capire e approfondire, attraverso domande specifiche, quali fossero i problemi ed eventualmente far partire direttamente una proposta progettuale di innovazione tecnologica. Questo sistema pull ha funzionato, tanto da consentire la raccolta di molte belle storie di vita e di impresa e di idee di possibili soluzioni, oltre a darci la possibilità di cominciare ad alfabetizzare un pubblico ancora distante dai temi della rivoluzione 4.0. su big data, IoT, intelligenza artificiale, ecc.

Ma tornando all’agrifood con la task force di Rural Hack abbiamo fatto negli anni un intenso lavoro per incontrare e conoscere realmente quelli che le narrazioni dei media si divertono a chiamare “neo rurali”. Lo abbiamo fatto attraverso azioni di diversa natura (formative, performative, progettuali, consulenziali e di co-design) portate avanti sui territori con i nostri compagni di sempre come i fratelli della #Cumparete o dell’orbitale aggregato intorno all’ecosistema del Centro di Ricerca HER She Loves Data, ma anche lavorando con istituzioni come il Ministero dell’Agricoltura, ISMEA o le associazioni di categoria.

Delle volte, vi confesso, abbiamo dovuto digerire anche frequentazioni non tanto nelle nostre corde, ma questo ci ha dato l’occasione di conoscere il punto di vista dei giovani agricoltori incontrandone, negli ultimi anni, circa 5000. Questo ci ha consentito di cogliere una spiccata attitudine all’innovazione tecnologica, immaginata soprattutto come risorsa per attivare trasformazioni di processo e di prodotto che portino ad un maggior guadagno e ad un impatto ambientale più sostenibile, anche nella logica dell’economia circolare. I giovani apprezzano, per altro, l’idea dell’open source soprattutto per non diventare schiavi delle tecnologie e di chi le produce.

La nostra ricerca-azione ci ha portato ad individuare due elementi-chiave per l’evoluzione possibile del nostro modello di intervento:

le comunità che sono, per noi, uno spazio di opportunità, non necessariamente legate ad un territorio specifico, nel senso che “le nuove comunità vanno viste come un intreccio di conversazioni cui le persone partecipano in modo diversi, scegliendo dove, come e per quanto tempo allocarvi le proprie risorse (di attenzione, competenze, disponibilità relazionale). Il loro primo carattere distintivo rispetto alle comunità premoderne sta nel fatto che i legami che vi si intessono sono il risultato di una scelta. Stiamo parlando di comunità intenzionali”
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Tuttavia la dimensione territoriale torna ad essere un riferimento importante per la creazione di nuove economie.
la tecnologia che deve essere: l’occasione di un’agricoltura 4.0 sostenibile; il sistema di co-creazione di soluzioni possibili; il facilitatore delle connessioni che consente all’agire degli innovatori neo-rurali di essere iperlocale e diffondersi nell’infosfera. Le tecnologie sono abilitatori; sistemi di raccolta e condivisione delle conoscenze prodotte di volta in volta; strumenti di supporto da utilizzare, creare e ripensare in modo coerente con i processi e le trasformazioni socio-culturali da accompagnare.


#Campdigrano 4.0: l’incontro necessario tra il faber e il sapiens

“Come può una società pensare, allo stesso tempo, dal basso e dall’alto? Come può immaginare nuove opzioni radicali? E come può un sistema pensare in modo sistematico?”
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Un’esperienza esemplare, fatta letteralmente sul campo, è quella realizzata a luglio dello scorso anno in occasione del Palio del Grano che si tiene a Caselle in Pittari, un piccolo borgo delle aree interne del sud Italia, in provincia di Salerno nel cuore del Cilento. Da qualche anno qui un gruppo di giovani, partendo da un pugno di grani antichi, ha creato un sistema di imprese che cooperano con la comunità per la produzione e la valorizzazione di grani che non hanno subito ibridazioni in laboratorio ma sono sottoposti a processi di miglioramento genetico attraverso miscugli di semi.

Posso a pieno titolo dire che i ragazzi di Caselle In Pittari sono degli eroi e sono come dei fratelli per me. Insieme a Michele Sica, gestore del nostro quartier generale della Incartata, con il quale abbiamo immaginato questi ponti di transizione con i progetti RuralHub e RuralHack (e in realtà anche tanti altri), è proprio insieme alla comunità dei nostri cumpari di Caselle che abbiamo messo in comune una serie di pratiche che hanno sostenuto quello che in Italia è definito movimento neururale.

Ruralhack, proprio in occasione del Palio del Grano -bellissima festa popolare che ogni anno raccoglie persone da tutti i paesi limitrofi (ma ormai da ogniddove)- ha organizzato #Campdigrano 4.0, una settimana di lavoro insieme a contadini, agricoltori, giovani del paese e delle scuole circostanti, i nostri partner di Officine Innesto, ricercatori e docenti dell’Università Federico II° di Napoli, giovani studiosi del Dipartimento di Scienze Sociali che hanno studiato facilitazione della trasformazione digitale per le pmi, esperti del sistema dell’agrifood (dalla genetica dei semi, al mercato del biologico), ingegneri esperti di sistemi open source per l’agricoltura e tante persone accorse per far festa durante il Palio del Grano.

Questa settimana si è configurata come una attività di mentoring all’interno del progetto PIDMed che abbiamo portato avanti con la Camera di Commercio di Salerno e che, aldilà degli obiettivi dichiarati dal progetto di avvicinare le imprese del territorio alle tecnologie digitali, aveva anche questi altri importanti obiettivi:

svolgere un’attività di ricerca partecipata, raccogliendo indicazioni sui fabbisogni delle piccole imprese agricole del territorio;
progettare soluzioni di agricoltura di precisione 4.0 che rispondessero alle esigenze della piccola agricoltura di qualità, tenendo insieme il massimo delle competenze di hardware open source con la sapienza dei vecchi maestri della terra;
sperimentare e osservare l’applicazione di metodologie di supporto ai processi delle intelligenze collettive per lo sviluppo dei territori.
Tutto questo in un’unica esperienza fortemente identitaria.

Favorire gli incontri, i confronti e far emergere punti di vista nuovi, oltre le polarizzazioni e creando connessioni e ponti tra discipline e posizioni differenti e distanti: questa è l’essenza del metodo di Societing 4.0. Il presupposto metodologico, nell’accezione del modello mediterraneo, è la possibilità di accogliere e far dialogare i diversi punti di vista, come si tratta la dimensione conflittuale nella tragedia greca: attraverso la mediazione. La ricerca-azione di Societing 4.0 è basata su conoscenze transdisciplinari e sulla combinazione della ricerca sociale tradizionale insieme a processi di design thinking, utili per facilitare i processi di incontro, scambio e mediazione (da Manifesto di Societing 4.0)

L’esperimento ha consentito di far incontrare e dialogare comunità così distanti come quelle degli anziani contadini di un piccolo paese del sud Italia e ingegneri che progettano tecnologie open source tra Torino e il mondo. Eppure, oltre le lingue e i linguaggi che spesso diventano barriera all’interazione, si è dimostrato che fra queste due comunità c’è una radice comune che riguarda lo stile delle loro pratiche e che avvicina profondamente i faber e i sapiens: si tratta dell’essere tutti makers con l’attitudine hacker cioè l’attitudine alla sperimentazione, al confronto, al “mettere le mani e la testa insieme per trovare soluzioni”.

Il ruolo di facilitatori e mediatori è stato svolto dal team di RuralHack composto da tirocinanti dell’Università, professori, facilitatori e mentor per la trasformazione digitale delle imprese.


In fondo abbiamo utilizzato un metodo molto simile a quello della genetica evolutiva partecipata promossa da Salvatore Ceccarelli e Stefania Grando che da anni ci è di grande ispirazione (e non solo per faccende che riguardano l’agricoltura). Un approccio utilizzato anche a Caselle in Pittari per la selezione di quegli stessi grani protagonisti del Palio. Il miglioramento genetico partecipato è un modo di selezione dei grani che rispetta l’adattamento dei semi all’ambiente e, insieme, le necessità degli agricoltori. Questo lavoro si è esteso a molte colture ed è oggi attivo in molti paesi, mettendo insieme agricoltori, biologi e sociologi con lo scopo di riportare la gestione della terra nelle mani dei contadini, di rispondere alle necessità di coloro che vivono e lavorano nelle condizioni più difficili, nonché di sostenere e incrementare lo sviluppo della biodiversità.

Tecnologie a supporto della trasformazione socio-economica: alcune condizioni abilitanti

Se l’agricoltura convenzionale sta diventando insostenibile le tecnologie possono avere un ruolo rilevante nei processi ecologici di trasformazione ma vanno ripensate e plasmante, secondo noi, nel rispetto delle persone e delle altre forme di vita.
Sulla base della ricerca-azione condotta in questi anni rileviamo la presenza di condizioni abilitanti che rendono le tecnologie (anche 4.0) utili ai processi di innovazione sociale avendo impatti positivi sull’ambiente e l’economia:

La prima è la necessità di un cambio di paradigma socio-economico
che deve ritornare a dare valore alle persone, al suolo, ai cibi sani e anche alle comunità locali:

oggi la lotta per libertà si gioca sul cibo, sul clima e sulla protezione della biodiversità, ossia sulla relazione dell’uomo con la sua produzione alimentare e con il rispetto del suo spazio di vita. Con la Terra. Noi affrontiamo multinazionali che si riuniscono dietro cartelli che non si dichiarano tali. Loro sono giganti, ma noi siamo moltitudine. Ci credono isolati e dispersi, invece noi siamo uniti e forti là dove ci troviamo, là dove vogliamo riconquistare il nostro potere decisionale: nei nostri comuni, nelle nostre regioni, nei nostri luoghi di lavoro e nei nostri parlamenti.
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Gli agricoltori, soprattutto i più piccoli, hanno necessità di mettersi insieme, sia a livello internazionale che a livello locale. Forme cooperative possono unire le voci, le forze e le risorse;

La seconda è la creazione di connessioni tra le innovazioni sostenibili. La quarta rivoluzione agricola è associata a molte innovazioni nell’agricoltura sostenibile, alcune emergenti e altre più consolidate, che interagiscono e si evolvono in una più ampia ecologia dell’innovazione che comprende grandi tecnologie emergenti (AI, Internet of Things, Cloud Computing, robotica), insieme a piccole innovazioni per gli agricoltori, fino a soluzioni di agricoltura sostenibile più semplici o a bassa o nulla tecnologia. Nella fretta di abbracciare l’agro-tecnologia intelligente, non dobbiamo rischiare di dimenticare la più ampia rete di altre innovazioni che svolgono un ruolo importante e che possono anche influenzare le società in modi diversi. Dobbiamo garantire che il concetto di innovazione sostenibile non sia collegato esclusivamente alle grandi tecnologie intelligenti emergenti.

Ciò significa, concretamente, mappare le innovazioni e collegare la loro applicazione anche ad altri campi dell’innovazione sostenibile con un’attenzione alla determinazione di fini socialmente responsabili. Non dimentichiamoci che anche le tradizioni sono state delle innovazioni che le comunità si sono tramandate per garantire la loro sopravvivenza e questo, in una ottica critica che guarda realmente alla sostenibilità, significa che può essere interessante recuperare qualche innovazione che abbiamo perso o dimenticato per seguire una certa idea di progresso e che invece può rivelarsi fondamentale.

Le tecnologie vanno utilizzate tutte (monitoraggio fitosanitario del grano con i droni per esempio evita di spendere giornate intere e ci mette 10’). Per fare un esempio: per macinare a pietra oggi serve tutta la tecnologia di cui disponiamo (selezionatore ottico, tavola gravimetrica per avere prodotto sano per essere macinato) e anzi, è proprio la tecnologia applicata con sapienza che ci consente di tornare alla macina a pietra.



La terza riguarda la creazione di ponti tra faber e sapiens.
L’esperienza realizzata sul campo ci rafforza nell’idea che la creazione di ponti tra tradizione, innovazione, discipline, saperi, attori sia una via adeguata all’ideazione di percorsi e soluzioni non convenzionali e più sostenibili. Ci sono saperi, infatti, che partono da pratiche che sono strumenti conoscitivi solidi e non sono solo folklore o superstizione; sono conoscenze che hanno carattere scientifico (erano la prova e la riprova). L’azione collettiva, fatta attraverso lo sviluppo delle reti, può attivare un’intelligenza collettiva che co-generi idee nuove, soluzioni diverse e occasioni diffuse;

La quarta riguarda le alleanze tra attori istituzionali e non
affinché svolgano: un ruolo di supporto (per esempio sulla formazione o per il coordinamento di momenti di co-progettazione); un ruolo di cerniera tra gli interessi del territorio (per esempio tra produttori agricoli e mense pubbliche); un ruolo di facilitazione nella condivisione di occasioni (per esempio l’incontro con la ricerca e/o con soluzioni tecnologiche); un ruolo di diffusione della cultura della qualità del prodotto e della salute del cibo.

Del resto, per dirla con le parole di Mulgan, “La sola verifica per le proposte di cambiamento deriva dalla pratica, dall’implementazione e dalle lezioni apprese in corso d’opera. Nessuno può dimostrare a priori se nuove leggi o nuovi modi di gestire la società funzioneranno o meno. E il massimo che si può fare consiste nell’assemblare elementi: esperimenti, esempi a analogie che si cambiano a creare un nuovo modo gestire le cose.”
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Il senso della nostra ricerca-azione è dunque quello di utilizzare uno sguardo plurale per riguardare i luoghi favorendone il loro sviluppo. Riguardare nel duplice senso di aver riguardo per loro e di tornare a guardarli perché nessuno sviluppo può avvenire sulla base del disprezzo dei luoghi, della loro vendita all’incanto, dagli stupri industriali della modernità a quelli turistici della postmodernità.
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Forse mi sono lasciato prendere la mano e sono andato lungo, ma questo di cui vi ho parlato è un gioco serio che mi appassiona molto, e per questo mi permetto di chiudere aggiungendo un ulteriore significato a quel riguardare, intendendolo appunto come un riguardare con sguardo rinnovato. Un riguardare aumentato grazie alle possibilità offerte da una nuova alleanza tra intelligenze collettive e tecnologie digitali finalizzata a creare ponti tra la comunità locali e le comunità di intenzione di tutti gli impatti positivi generati sul Pianeta da una certa visione del Mondo. Credo sia necessario.

Mi sa che non possiamo più andare oltre.

Alex Giordano pioniere della rete in Italia, animatore di Rural Hub, Docente Universitario

Le immagini sono tratte dalla rete e specificamente dal Wine Blog di Luciano Pignataro: Edizione 2019 del Palio del Grano di Caselle in Pittari.

NOTE
1.Risale agli anni ’50, a partire da una casualità, la scoperta del modello nutrizionale che verrà chiamato Dieta Mediterranea: a Napoli nel 1951, il fisiologo americano Ancel Keys e la moglie biologa Margaret Haney incontrano il fisiologo dell’Università di Napoli Gino Bergami e con lui si rendono conto che il regime alimentare degli operai partenopei è più sano di quello dei manager americani. (Moro E. “Salvaguardare la memoria della Dieta Mediterranea” in Libro bianco della Dieta Mediterranea, Maggio 2016)

2.Mazzucato M. Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, Editori Laterza, 2018

3.I valori della Dieta Mediterranea, che l’Unesco sfida a mantenere attraverso l’educazione al benessere fisico ed emozionale, la valorizzazione delle filiere produttive tradizionali, dei servizi ecosistemici, di protezione del paesaggio identitario e delle sue diversità bioculturali, sono: il rafforzamento del legame sociale, scambio culturale e intergenerazionale per la trasmissione dei valori costituenti l’elemento; la conservazione del paesaggio identitario, delle risorse naturali e delle attività e dei mestieri tradizionali; il contributo al benessere fisico e emozionale e alla creatività; la promozione dell’uguaglianza di genere e riconoscimento delle diversità.

4.Manzini E. Politiche del quotidiano, Edizioni di Comunità, 2018, 41

5.Mulgan G., Big Mind. L’intelligenza collettiva che può cambiare il mondo, Codice edizioni, 2017, 231

6.Bové J., Juneau G. L’alimentazione in ostaggio, ami, 2015,

7.Mulgan G. Big Mind. Come l’intelligenza collettiva può cambiare il mondo, Codice, 2018

8.Cassano F. Op. Cit. , X

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