Quando sei lontano dall’occhio del ciclone forse è più facile guardare l’evoluzione delle situazioni e coglierne le contraddizioni
Vivendo lontano le mie fonti di conoscenza si limitano a quanto riesco alle mie relazioni sui social. Quasi come un mantra tutti sembrano ripetere che “nulla sarà come prima” ma, nei fatti, attribuiscono a queste parole significati ben diversi. E’ chiaro che ci attende una fase, di non breve periodo, in cui costumi, usanze e modi di vivere dovranno giocoforza riadattarsi, ma al di là del mantra non mi sembra esserci una riflessione su questo dopo.
In effetti ci sono molti che desidererebbero che tutto tornasse come prima, sia nei modo di vivere che nei rapporti sociali; certamente chi, nella situazione pre emergenza, traeva il suo benessere da un sistema fondato sul trasferimento della ricchezza dai meno abbienti ai già più ricchi e chi si beava del suo status di consumatore. Però basta ragionare un attimo, fermarsi ad osservare con occhio critico l’esistente, per capire come è oggettivamente impossibile ripristinare lo status quo ante.
Lo stesso quadro si riscontra al livello della politica dove, a grandi linee, anche qui mi sembra di essere in presenza di due soli poli: quello che dice che l’emergenza è stato solo un’emergenza sanitaria e di mancanza di posti letto di rianimazione e quindi è finita, e quella che richiama alla responsabilità senza progetto di cambiamento.
L’esempio della città di Napoli mi sembra eclatante. In questi ultimi anni l’amministrazione comunale ha creato un modello di città che si fonda sulla riproposizione di modelli culturali, food e quant’altro, fondati essenzialmente sul turismo, un turismo al quale non sono stati forniti strumenti di qualità: dai trasporti ad una proposta culturale globale. Strutturalmente questo ha comportato un cambio di destinazione d’uso del tessuto urbano. La città si è trasformata in albergo diffuso, senza servizi, e con nuove botteghe tutte destinate al consumo dei turisti. In questo modello si sono, credo di non sbagliarmi, inseriti anche operatori che, per dirla con un eufemismo, avevano costruito la propria capacità di investimento ai margini o fuori della legalità, dall’evasione fiscale continuata alla malavita organizzata propriamente detta.
Questo modello di città ha, in pratica, facilitato anche il riciclaggio.
In questo quadro mi colpisce l’afonia della Politica, quella vera, che dovrebbe disegnare scenari futuri, costruire idee e progetti per il cambiamento, innanzi ad una situazione che mostra tutta la fragilità su cui si basa il sistema Napoli.
Venuta meno, per evidenti motivi, la locomotiva del turismo, cosa resta? Questa amministrazione napoletana, in questi anni, ha vissuto la situazione privilegiata di non dover fare i conti con una opposizione politica vera, che, al di là di critiche e mugugni sulla evidente incapacità della gestione amministrativa, disegnasse un quadro diverso di prospettive e di valori, costruisse cioè un disegno di blocco sociale diverso da quello che unisce bottegai, proprietari di B&B e centri sociali.
Se tutto non sarà come prima bisogna, allora, cominciare a costruire un progetto nuovo ma anche individuare i mattoni che questo progetto deve utilizzare che disegnino e prefigurino un’idea altra di città.
Dico questo perché ritengo che il livello delle città sia ideale per cominciare a lavorare in questa direzione, perché si possono costruire idee e e progetti che divengano vere e proprie vertenze che valorizzino le eccellenze di Napoli e che farebbero emergere una diversa classe dirigente in grado di guidarle e di condurle a sintesi politica.
Ritengo che ci siano qualità ed energie per fare questo, se soltanto si passasse dalla critica alla proposta. Se stessi a Napoli mi prodigherei per lanciare un appello per raccogliere queste forze non per sottoscrivere un manifesto ma per creare un forum dei progetti e delle idee, per individuare punti di conflitto e negoziazione, per cercare di creare parziali, ma significativi, elementi di cambiamento.
Alberto Leone
Parto dalla fine dell’intervento, che condivido, solo per notare che, nel corso degli ultimi anni, numerosi tentativi sono stati fatti in questo senso. L’attività extra cartacea di questa rivista è uno dei quali. La realtà, fin qui, è che nessun appello o forum ha mai raggiunto né i numeri né la coesione sufficiente a produrre azione concreta di cambiamento. L’irruzione dell’impensabile potrebbe, tuttavia, favorire oggi (domani) l’irrealizzato di ieri. C’è un altro punto che vorrei sollevare, tagliandolo con l’accetta per ovvi motivi di spazio: la difficoltà di governare uno sviluppo (turistizzazione selvaggia, bed-breakfastizzazione del Centro Storico), quando (per contingenze “spontanee”) il processo smuove l’economia cittadina e porta vantaggi diffusi a soggetti diversi e di diversa consistenza. Nella città in cui risiedo, Pozzuoli, governata da un sindaco PD con giunta e maggioranza ecumenica, al secondo mandato, le cose non sono andate diversamente. Malgrado il cospicuo potenziale di attrazione turistica che va dall’archeologia, alle bellezze paesaggistiche, alla ricerca scientifica (il bradisismo è fenomeno unico al mondo in zona altamente antropizzata), l’unico sviluppo che qui si continua a proteggere è quello della ristorazione e dell’ospitalità (entrambi come sappiamo, spesso fiscalmente invisibili). Mi correggo, neanche proteggere, lasciar fare. Perché anche qui, niente è stato fatto per migliorare il trasporto pubblico, ad esempio, vero dividendo per la cumunità. È chiaro che la questione è la qualità della classe dirigente, ma è difficile creare consenso attorno a una visione differente, quando in molti guadagnano da una certa situazione. E chiudo con la flebile speranza che la vulnerabilità dell’industria turistica spontanea e acefala possa risultare più chiaramente evidente dopo la cesura Covid.