Ci siamo permessi di esprimere una valutazione, non ce ne voglia l’autrice. Ci sono sembrati importanti infatti non solo il tema ( stiamo raccogliendo molti contributi che saranno utili per un confronto da proseguire ed approfondire ), su cui è carente una forma di pensiero collettivo che invece andrebbe rapidamente recuperata, ma anche la sollecitazione/proposta indirizzata alla RAI e all’intero sistema formativo italiano. *



Il 10 marzo ho ripreso le lezioni del secondo semestre. In streaming. Dopo una settimana di training intensivo (in teleconferenza) che mi ha introdotta, insieme a decine di colleghe e colleghi del mio ateneo, nel favoloso mondo di Google Suite. Risparmio i dettagli dell’apprendistato, perché immagino che ognuno possa far riferimento alla propria esperienza.
Il 10 marzo dunque, nell’improbabile orario delle 13,30, ho trovato la mia aula virtuale piena come non mai. La modesta strategia da me subito adottata è stata affidarmi subito e apertamente alla loro guida: clicki in basso a destra, prof, apra la finestra a sinistra, avvii la registrazione, eccetera. Fidarsi dei nativi è saggia attitudine per scoprire paesi nuovi.
Da quel giorno ho cominciato a riflettere sull’esperienza della didattica a distanza, senza trovare il mio posto né tra detrattori e detrattrici, né tra i/le folgorati/e dalla novità, adepti/e entusiasti/e.
La dico brutalmente, a me sembra che noi docenti, in questa situazione che ne rende esclusivo l’uso, ci serviamo della tecnologia telematica come una ricetrasmittente. Anzi, come una trasricevente.
Nel 1964, McLuhan ci insegnò che il medium è il messaggio. Ma parliamo di quasi sessant’anni fa e ora, per la lunga confidenza con il mezzo, siamo forse un po’ più sgamati. In ogni caso, è sempre vero che ogni medium ha un proprio linguaggio, una sua lingua autoctona. È stato così dal tempo in cui dall’oralità si è passati alla scrittura, da questa alla stampa, e poi alla radio, alla televisione, a internet.
Noi insegnanti parliamo la lingua dei libri, delle aule, dell’interazione fisica, come ben descritta su questo sito da Francesca Giusti.
Certo, durante le lezioni ci serviamo di lim, di audiovisivi, di filmati, foto, immagini, musiche scovate in rete, ma, sempre, come materiali di supporto che accompagnano – talvolta esemplificandole, spesso integrandole – le nostre parole.
Cosa c’è allora che non va nella DAD così come la stiamo praticando in emergenza?
Esattamente il linguaggio.
In questi giorni, complice la reclusione, mi è capitato di assistere a vari programmi televisivi contrassegnati dal bollino “culturale”. A titolo di esempio, cito Punto di svolta con Eduardo Camurri, un ciclo di trasmissioni quotidiane, dal lunedì al venerdì, dedicate a scrittori e scrittrici contemporanei, tenuti insieme dal verificarsi nella loro opera di una svolta.
Il format è un tipico prodotto di sincretismo comunicativo in cui si ritrovano abilmente miscelati sollecitazioni multisensoriali. Il conduttore viaggia fisicamente nei luoghi dell’autore e/o del romanzo su cui si sofferma, attraversa le strade, sale scalinate, si affaccia da belvederi, con l’aria di chi la sa lunga, eppure complice. Recita, pertanto è molto convincente. Il ritmo è veloce, le immagini si intersecano e si susseguono rapide, richiamando costantemente l’attenzione. Musica che sta al tempo, ma non incombe, distraendo. Accompagna, aggiungendo emozione. Alle riprese di esterni si alternano, in camei, i corpi e le voci di due esperti/e (docenti, traduttori/trici) e un attore che legge – da attore – qualche riga dall’opera. E mentre loro parlano, in sovraimpressione e con caratteri e colori diversi, compaiono brevissime frasi, o solo la parola chiave di un concetto espresso. Conferma multisensoriale audio-visiva. Nonché evocativa, considerato che, in fondo, è di scrittura che si parla. Sotto l’effetto di tale abbondanza di stimoli, la temperatura emotiva sale, mentre lo spettatore e la spettatrice padroneggiano ormai nozioni elementari sufficienti a percepire il fascino del ‘punto di svolta’. Camurri ricorre a un micro cliffhanger, esita un secondo e sgrana gli occhi, alludendo all’imminenza del colpo di scena. La curiosità di sapere come va finire è innescata. Sono pronti e pronte, dopo neanche venti minuti. Lo aspettano. Ed è esattamente questa la funzione del titolo: fare da esca. Un attrattore collocato giusto al centro della breve narrazione televisiva per rinnovare l’interesse (come si sa, declinante dopo quel lasso di tempo) e ricaricare la disposizione cognitiva di chi segue la trasmissione. Quaranta minuti di intensa comunicazione perfettamente confezionata.

Dall’altra parte, ci siamo noi, in inquadratura fissa imbarazzata e imbarazzante. La nostra faccia, che è una faccia da aula, nel loro schermo; a volte deformata dalla vicinanza impropria (ma ditelo ai miopi!) alla web camera, o bloccata in espressioni grottesche dalle intermittenze della connessione. Noi che, al massimo, possiamo alternare la nostra faccia alla “condivisione del nostro schermo” dove loro potranno vedere, belle ferme, le nostre slide.
Immaginate invece se fossimo stati attrezzati a servirci organicamente di produzioni specifiche attraverso le quali migliorare la comunicazione docenti/discenti, disegnando uno spazio comune e coordinato di contributi complementari.
Mi si dirà che questa è un’emergenza. Certo, ma non mi sembra disdicevole guardare a questa esperienza per trarne qualche idea buona per il futuro in generale, o nella malaugurata ipotesi di un futuro simile.


La RAI custodisce un patrimonio immenso di materiali didattici e molti altri e più moderni nelle forme e aggiornati nei contenuti potrebbe produrne. Come, peraltro, ha già prontamente cominciato a fare in questo periodo. Materiali concepiti e costruiti nel linguaggio video, coerenti ed efficaci e, elemento non trascurabile, in grado di raggiungere qualsiasi utente in forza del medium ubiquitario che li veicola e li rende disponibili.
In questo nuovo clima di rivalutazione del pubblico, credo che si dovrebbe dare particolare attenzione anche alla TV di Stato che ha subito lo stesso deterioramento di altre istituzioni generato dall’aziendalizzazione competitiva e mercatista da un lato, e dalla feudalizzazione partitica dall’altro. Mi piace l’idea di una televisione bene comune. In questo tempo in cui tutto è, o appare, più chiaro, bisogna abbandonare posizioni rinunciatarie ai limiti del fatalismo rispetto alla possibilità di ripristinare un discorso di qualità per la televisione pubblica, per dare senso nuovo e precipuo all’espressione che la indica come “la più grande industria culturale italiana”.

Iaia De Marco

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4 commenti

  1. L’esperienza della DAD mi ha trovato impreparata,non tanto per la mia poca conoscenza del mezzo telematico ( anche perchè a forza di corsi di formazione e aggiornamenti qualcosa l’ho capito anch’io), ma per una sensazione di ineguadezza. Non mi ci trovo in una classe virtuale , anche se giustificata dall’esigenza del momento.
    In classe docenti e studenti interagiscono,si scambiano emozioni anche attraverso il linguaggio non verbale ,stabilendo così relazioni significative che favoriscono il processo di apprendimento e la crescita socio-educativa degli alunni. La scuola in particolare, la primaria,non può trasmettere solo sterili contenuti,ma fornisce gli strumenti per “il saper vivere”con gli altri.

    1. Cara Rosi, grazie per il tuo commento. Di fatto la mia riflessione muove proprio dal senso di frustrazione (da inadeguatezza) maturato in questa recente esperienza. Nelle dinamiche dal vivo si sprigionano tutte le potenzialità personali del docente e di rimando dei discenti; l’espressività del corpo, il suo stesso movimento e il modo di occupare lo spazio, e, dall’altro lato, gli sguardi degli studenti, la distrazione di un attimo, l’espressione insicura che può guidarci nel riprendere un concetto e riformularlo. Insomma, l’interazione.
      Tutto ciò è, sostanzialmente, non riproducibile nella didattica da remoto. Ovvero, ciò che a me sembra non riproducibile è l’aspetto emotivo. E proprio perché sappiamo quanto sia decisivo nell’apprendimento, andrebbe sostituito con prodotti adeguati.
      Certo, tutto da sperimentare.

  2. “Quaranta minuti di intensa comunicazione perfettamente confezionata.” Ho estrapolato questa frase efficacissima di Iaia perchè mi spinge a scrivere alcune mie meditate osservazioni. Ho amato molto il mio lavoro nella scuola, faticosissimo per mia scelta, appassionante per mia volontà ma veramente bello per la vitalità umana e la curiosità culturale alimentata dal quotidiano rapporto con i giovanissimi, spesso difficile ma sempre inserito in una progettazione didattica aperta al sapere interdisciplinare, con l’obiettivo di sviluppare il desiderio, il piacere di voler conoscere di più autonomamente ……sempre in continua emergenza e, spesso, con l’incapacità di valorizzare la memoria storica. Il Coronavirus ha messo a nudo anche Il Sistema scolastico italiano con la conferma che è inesistente – da decenni – una corretta e moderna Politica Scolastica : troppa retorica (anche ideologica) troppi proclami ed enfatizzanti slogan ( ricordate le famose tre “i” di Berlusconi” sempre in un percorso di emergenza…anzi per qualsiasi fenomeno sociale si chiedeva/pretendeva il contributo della scuola….e intanto tagli, tagli anche sul piano dei contenuti malcelate da metodologie sofisticate. I “pezzetti” di Riforma all’avanguardia (tipo la riforma di Berlinguer per lo studio del ‘900, prioritario nelle ultime classi) sono stati prima evasi, poi annullati nella pratica quotidiana e, infine, a livello legislativo. Un buon ed onesto manuale di Storia della Didattica ha certamente pagine chiarificatrici- All’inizio del 2000 i corsi di informatica erano previsti solo per i docenti di matematica…nel 2012 in alcune scuole c’erano i laboratori di informatica con numero ridottissimo per docenti ed alunni, in qualche istituto una/due LIM per una platea di studenti di 800/900 alunni (Mie esperienze dirette) Gran parte dei docenti di altre discipline ” si sono impadroniti” del digitale, a proprie spese non solo economiche, e venivano percepiti “controcorrente “e a volte derisi dai rappresentanti della didattica tradizionale (per meglio dire rigida)- E’ stato tenace il lavoro a saper diffondere – anche con acquisizione di specifiche competenze pedagogiche – i linguaggi e le potenzialità delle nuove tecnologie, con piena responsabilità personale o di piccoli gruppi … E in questi ultimi due mesi il Ministero scopre la necessità, l’utilità, la diffusione della DAD: molti servizi televisivi danno visibilità a progetti proficui già realizzate in varie scuole della penisola. E negli ultimi 50 giorni le immagini della Tv sembrano le pagine di un bel racconto moderno dove tutti sono felici perché dotati dei migliori attrezzi in case da “mulino bianco”, contenti anche per i sorrisi degli adulti che seguono i piccoli nelle attività online…. e tutti armoniosamente in casa. Ed ecco la grande sentenza ministeriale “Da Settembre la Didattica a Distanza diventerà obbligatoria”….ovvero ” Di necessità virtù” . Ritorno alle importanti osservazioni di Iaia che dovrebbero essere ben sottolineate e condivise come solide indicazioni per costruire un documento base che coinvolga, responsabilizzi il mondo universitario e docenti di ogni livello e disciplina per trasformare la DAD di emergenza in un primo tratto per dare l’avvio ad una complessiva riforma della scuola e della formazione dove la DAD è solo un tassello di una didattica innovativa, i cui risultati sono frutto di continue verifiche e sostenuta da una cornice teorica di esperti interdisciplinari. Certamente non potrà essere un lavoro breve e né lineare per l’essenziale sperimentazione a più livelli, ma proficuo se incrementa una Riforma Scolastica Sistematica che neutralizzi ogni emergenza futura…senza dimenticare che la “intensa comunicazione perfettamente confezionata” nel quotidiano non fa bene alla scuola, non fa bene alla vita. E la scuola è, deve essere più vita con lo sguardo al futuro, al progresso. Grazie Gaia.

  3. Grazie a te Rosanna per l’articolato commento reso puntuale e incisivo da una competenza e un’esperienza incommensurabili alla mia. E infatti, il tuo approccio è di gran lunga più complessivo delle mie intenzioni. Il mio punto, invece, è considerare la peculiarità di linguaggio di ciascun medium nelle applicazioni in medium di altra natura. È ben per quello che citavo McLuhan, in aula il medium siamo noi e, quindi, noi siamo il messaggio. In video (televisione) noi siamo degli abusivi. Il senso della mia espressione, che hai apprezzato esteticamente e biasimato nel contenuto, era mostrare la rilevanza dell’adeguatezza al medium di un prodotto strutturato nella sua lingua.

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