Oggi siamo costretti a fare lezione on line, molti lavorano seri, ma in alcuni prevale il lamento: c’è distanza, una barriera tra noi e i ragazzi. Ma veramente scopriamo ora, soli davanti al computer e alla nostra immagine, che una distanza, direi quasi un fossato c’è ormai da decenni e si allarga sempre di più?
Una lezione in presenza: un argomento nuovo, una “spiegazione”. Un insegnante dispone fondamentalmente della sua voce, impara a modularla. Si muove variamente nei banchi, usa la gestualità. Il teatro è stato spesso associato alla scuola. Si tenta con vari strumenti di tenere legati gli studenti alla voce: curiosità, sforzo di concentrazione, emozioni, secondo l’argomento.
Nella lezione normale si ha un immediato feed back, un’interazione tra noi e i ragazzi. Già mentre parli, se gli sguardi sono opachi e un po’ spenti, capisci che hai sbagliato registro e cerchi di correggere il tiro. Per quanto sia impegnativo l’argomento che tratti, devi seguire con lo sguardo uno a uno gli alunni e riacchiapparli se si sono persi. Michele, per piacere, lo ripeti dopo l’inglese? Vania, quale film romantico ti stai facendo? Guglielmo, che caspita fai con le figurine che attacchi sul diario? E poi riprendi il discorso col dovuto rigore, come se nulla fosse accaduto.
Ho imparato negli anni che la spiegazione deve essere suddivisa in blocchi relativamente brevi per fare le prime verifiche immediate subito, all’istante, prima che si fissino in mente i contenuti tutti sbagliati.
Quel che la pedagogia non rivela a se stessa e tantomeno ai futuri insegnanti è che l’operazione è frustrante e traumatica: vedi completamente alterato, distorto, variamente e creativamente interpretato quello che hai detto. Non parliamo nemmeno delle difficoltà di ricostruire pian piano il filo concettuale. La reazione è spesso colpevolista: i ragazzi non si applicano, non studiano, non capiscono. Si crea ulteriore distanza: voti bassi, genitori allertati, nei ragazzi un senso di sfida. Si esaltano al massimo quei pochi già preadattati alla scuola che avrebbero capito anche senza di te. Secchioni infelici o intelligenze profonde. Certo, i ragazzi hanno disimparato a pensare, di sacrificio non se ne parla nemmeno, ma che dire del modello di mondo in cui sono cresciuti?
Supplente, venti anni, istituto tecnico in un quartiere popolare, come la mia parte illuminista, fresca della lezione di Barbiana, mi aveva spinto a fare. Appena poche battute di una lezione preparata alla vecchia maniera e appare il fossato che mi separa dai ragazzi, che pure, una vita fa, avevano pochi anni meno di me.
Da bambina solitaria e un po’ triste ho sempre avuto un piccolo gufo “meta”, che appunto mi guarda “dall’alto”, mi osserva e mi parla. Agli altri non si fa vedere, ma mi rimprovera, mi costringe a ripensare ogni cosa, mi fa sentire in colpa: eppure discutiamo a lungo e ci vogliamo bene. Arrivato a scuola, il gufo si mette subito in funzione. Al primo mio sgomento iniziale reagisce con durezza. Ma ti rendi conto che stai parlando una lingua che non è la loro? E poi hai scelto questo mestiere? Impara a muoverti nella scuola reale che ci devi restare decenni.
Il piccolo gufo ha resistito anche lui negli anni: oltretutto era una terza specie, un mediatore culturale tra me e i ragazzi. Era particolarmente utile nelle verifiche. Non ti avvilire, no ti assicuro, tu non hai detto come ripetono loro, ma nella tua enfasi affannata di arricchire il racconto, finisci col dare troppe informazioni, senza una gerarchia. E poi credi troppo nel valore taumaturgico della “tua” cultura.
L’evoluzione umana, che studiavo al di là della scuola, avrebbe dovuto nelle mie fantasie sicuramente appassionare i ragazzi. Mi trascino da casa tonnellate di libri e numeri di National Geographic con le ricostruzioni dell’aspetto dei nostri antenati. Finalmente arriviamo al grosso e tozzo uomo di Neanderthal nei suoi ambienti glaciali.
Michele, che abbiamo detto di questo nostro antenato? Che cacciava, si costruiva le lance, viveva al freddo e poi ricamava merletti. Il gufo mi si rivolge brusco: non ridere come una scema, ma cerca di risalire all’errore. Rifacciamo tutti i passaggi ed ecco il punto: una sepoltura con tutti gli oggetti del morto, cioè i “corredi funebri” era stata forse attribuita al Neanderthal. Il corredo per i ragazzi, sono le lenzuola coi merletti che le madri preparano alle figlie. Hai visto? Incalza il mio piccolo gufo. Perché mai Michele doveva conoscere un termine archeologico, specialistico pure?
Ma torniamo al punto da cui siamo partiti. Se la lezione a distanza ci ha messo di fronte al fossato che possiamo fare da subito? Intanto per ora preparare con ancora più attenzione la nostra lezione, breve, concisa, essenziale. Usare con larghezza, poiché le piattaforme lo permettono meglio della scuola, immagini, power point preparati ad hoc e chiedere compiti scritti, ma anche multimediali che i ragazzi dovranno illustrare. Siamo in differita, ma pazienza.
Adoperiamo però questo spazio lento e pensoso che l’isolamento ci ha concesso per riflettere a fondo sulla vera distanza, sul fossato e i motivi che lo hanno creato.
Ripensiamo ai contenuti, ai programmi, ai libri di testo, ai metodi da usare per risultare più vicini ai ragazzi. La didattica a distanza potrà sommarsi a quella in presenza, sviluppando il pensiero visivo aggiunto a quello verbale. Studiamo di nuovo noi stessi.
Siamo noi “i grandi” che dobbiamo fare il primo passo, cercando di aggrapparci con funi all’altro lato del fossato. I ragazzi recepiscono l’interesse e la cura. E’ in gioco l’estinzione dello stesso pensiero.
Francesca Giusti
Evviva, spazio alle tante voci della scuola!