Da qualche giorno rincorro tutte le discussioni sulla applicazione che dovrebbe accompagnare la fase due della evoluzione non tanto della epidemia quanto della possibilità di movimento delle persone e mi sembra di stare sempre un passo indietro al dibattito. Neppure il tempo di organizzare le idee che sono già state prese decisioni per quanto parziali e in qualche caso contraddittorie. La polemica si è sviluppata attorno alla possibilità di tracciare, tramite un’applicazione sullo smartphone, il tuo distanziamento rispetto a possibili focolai dell’infezione verte sul diritto alla privacy: chi ti da, a te Stato, il diritto di entrare nei miei affari; i miei dati li do gratuitamente a chi voglio, sicuramente a Google, Facebook ed Amazon, e prima di affidarli allo Stato ci devo pensare bene molte volte. Posso essere anche d’accordo con questo governo, ma chi mi garantisce come utilizzerà i miei dati un prossimo governo? Tutti i ragionamenti vertono attorno al diritto alla privacy ed al relativo obbligo o meno a scaricare ed utilizzare l’applicazione. Poi ho pensato che forse non stiamo cogliendo il nocciolo del problema, che il diavolo sta nascondendo la vera essenza del problema che non è la privacy ma la proprietà, la gestione e la fruizione dei dati. La sensazione che avverto, sentendo tutte le campane, è che gli italiani sono stati infettati da un virus forse più pericoloso di quello che ti fa ammalare, e per il quale, forse e solo forse, ci si sta avvicinando alla possibilità di cura. Quello che leggo, al di là della collocazione ideale di chi scrive, è la sfiducia totale nel pubblico: se non ho fiducia nel pubblico vuol dire che non mi riconosco come comunità. Gli italiani non si sentono una comunità e questo virus si è insinuato nella mentalità di molti trasformando il dibattito in tifoseria da stadio. A questo proposto fa testo l’attesa spasmodica del match De Luca Fontana di ieri sera che avrà delusa tutti. Solo il riconoscere all’altro il diritto a coltivare il proprio orticello permette di curare il proprio senza problemi. A me sembra che ci sia un intrinseco sostrato ideologico in chi, afferma che, tutto sommato, il grande provider mi garantisce più della mano pubblica. Già infatti, spiega, Facebook ha rischiato la propria credibilità (vicenda Cambridge Analytica) e, per salvaguardare il proprio profitto ha oggi tutto l’interesse a salvaguardare i dati depositati nei suoi server. L’altra campana si limita dire che ciò che bisogna salvaguardare è la privacy, che, come diritto costituzionalmente garantito, è posto anche in concorrenza se non in contrapposizione al diritto alla salute. Questa conflittualità tra diritti costituzionalmente garantiti nasce dalla capacità che ha avuto il capitale (scusate, ma ho difficoltà a trovare un termine diverso) a propagare il virus dell’individualismo svuotando di senso gli stessi diritti costituzionali. Qualche giorno fa Michele Mezza e Sergio D’Angelo (che in qualità di commissario dell’azienda idrica di Napoli ABC e cioè Acqua Bene Comune di beni comuni dovrebbe intendersene) ed oggi i Segretari regionali di CGIL, CISL ed UIL della Campania, hanno posto con forza, al Comune di Napoli ed alla Regione Campania, il problema dei diritti sui dati che quotidianamente questi enti producono ed elaborano in quanto beni comuni. I dati che ogni giorno si accumulano devono essere trattati come “bene comune” alla stregua dell’acqua o, per meglio dire, della gestione e della distribuzione delle risorse idriche. Parliamo, cioè, della gestione e dell’accesso e dell’utilizzo del bene comune “DATI”. Chi non vuole rendersi conto di questo ritiene che il computer sia poco più di una macchina da scrivere, che Facebook sia una vetrina sulla quale postare le foto dei propri animali domestici e Whatsapp un simpatico modo di fare le video chiamate familiari. E’ proprio questo l’approccio che ha avuto il comune di Napoli che invece di lucrare sui dati che cedeva alla TIM ha pagato il servizio di conservazione di questi dati alla stessa TIM. All’affermazione che i DATI sono un “bene comune” ne consegue che conservazione ed uso degli stessi sono un un terreno di una battaglia delle idee per la quale vale la pena di spendersi per affermare una pratica di “democrazia radicale”. Parliamo di “un intero assetto istituzionale che, affermandosi tra il pubblico e il privato, aspira a costruire un rinnovato circuito democratico: un pubblico non statalistico e un privato liberato dall’individualismo possessivo”(Stefano Rodotà). Sempre se crediamo e vogliamo che nulle sarà come prima .
Alberto Leone