LETTERATURA E ALTRE STORIE, A CURA DI CARLANGELO MAURO

È scomparso di recente in America Joseph Tusiani, un poeta, traduttore, studioso e docente universitario, di origini italiane (San Marco in Lamis, 14 gennaio 1924 –New York, 11 aprile 2020), che tanto ha lavorato per la diffusione della letteratura italiana negli USA.

Rimando per la bibliografia a http://www.centrostuditusiani.com/
Di Tusiani, un grande “ambasciatore della cultura italiana”, figlio di un calzolaio emigrato in America pochi mesi prima della nascita del figlio, ci ha inviato un bel ricordo Luigi Fontanella, poeta e docente universitario negli USA, suo amico.


PER JOSEPH TUSIANI: UNA TESTIMONIANZA

di Luigi Fontanella


Joseph Tusiani (1924-2020) ci ha lasciato alla vigilia di Pasqua di quest’anno. Traduttore immenso, studioso di vaglia, fine prosatore e soprattutto poeta. Poeta quadrilingue: ha scritto libri di poesia in italiano, inglese, latino e dialetto garganico, Joseph è stato – dopo Dante Della Terza e Maristella Lorch – il primo vero intellettuale italiano che ho conosciuto poco dopo il mio arrivo negli Stati Uniti (agosto 1976). Nello scrivere questa data ho provato un sussulto, quasi meravigliato io stesso della mia lunghissima permanenza in questo “Nuovo Mondo”.
Fulbright Fellow a Princeton (1976-1978), andavo spesso a New York City e in una di queste mie visite newyorchesi un giorno m’imbattei in Joseph Tusiani. L’incontro avvenne nell’autunno del 1977, grazie anche a un seminario interdisciplinare su Arte e Poesia italiana, intitolato Italy Today, che tenevo alla Casa Italiana per conto del Barnard College e della Columbia, auspice Maristella Lorch. L’ultimo spicchio del mio seminario prevedeva anche qualche accenno alla poesia scritta da poeti italiani “trapiantati” – per usare un lemma controverso ma caro a Prezzolini, con il quale, per altro, il buon Joseph negli anni Quaranta non aveva avuto un felice impatto. Joseph Tusiani era a forza, nell’area della East Coast, insieme con Dante Della Terza, Alfredo De Palchi, Giose Rimanelli, Franco Ferrucci, Luigi Ballerini – personaggi, questi ultimi, che però avrei conosciuto poco dopo – lo scrittore, lo studioso e il traduttore più in vista, diciamo pure il “decano” dei nostri migliori intellettuali emigrati negli Stati Uniti.
In quel primo incontro, e negli altri che seguirono di lì a poco, di Joseph mi colpirono subito la riservatezza, la signorilità, la passione per la musica classica, l’eleganza dell’eloquio, la sicura cultura umanistica, la sottile ironia, la straordinaria memoria. Tutte qualità che poi avrei imparato ad apprezzare sempre di più col tempo, compresa, ovviamente, la conoscenza più approfondita della sua poesia.
Da quell’autunno del 1977 frequentai abbastanza regolarmente Tusiani. Questa frequentazione diradò un poco nel quadriennio che trascorsi a Cambridge (Harvard University). Continuavamo però a sentirci per telefono. La nostra frequentazione riprese, di fatto, dal 1982 in poi, ossia quando cominciai a insegnare alla Stony Brook University.
Andavo a trovare Tusiani in quella sua mitica casa al 2140 di Tomlinson Avenue, nel Bronx. Mi piace rievocare il rituale consueto di quei nostri incontri – non frequentissimi, ma per me memorabili. In genere arrivavo da lui nel pomeriggio. La madre, una signora anziana di poche parole (si rivolgeva a suo figlio in dialetto garganico), ci offriva gentilmente il caffè e qualche biscottino. Si parlava del più e del meno; se il tempo era bello facevamo un giro nel piccolo giardino adiacente alla casa; lì si ergeva un graziosissimo fico, per il quale Joseph, pur nella sua riservatezza, mostrava un certo orgoglio. Una volta scattai anche delle foto di lui e la madre sotto quel fico, foto che qualche anno fa ho regalato a Joseph.

Mi dispiace, ora, non averne fatto qualche duplicato.
Dopodiché la madre si ritirava nella sua stanza e noi due scendevamo nel basement, costituito, essenzialmente, da un’ampia sala. Era il suo studio, il suo mondo, il suo rifugio, la sua alcova di carta, la sua “stanza degli spiriti”. Libri ovunque; carte, ninnoli, quadri, un grande scrittoio, qualche sedia, una poltrona, una vetrinetta contenente le sue pubblicazioni e, soprattutto, un organo.

Parlavamo perlopiù di letteratura, di autori che ambedue amavamo e amiamo: da Dante a Michelangelo (Tusiani aveva tradotto e pubblicato tutte le poesie del grande artista-poeta nel 1960: un lavoro straordinario, che aveva riscosso e tuttora riscuote un enorme successo), da Pulci a Tasso.

È grazie a Tusiani che l’opera tassiana è stata maggiormente conosciuta e apprezzata dal mondo anglofono, ma tanti altri grandi poeti da lui tradotti andrebbero ricordati, da Marino a Metastasio, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Carducci, e ancora più avanti fino ai crepuscolari e oltre. Sto citando tutti autori magnificamente tradotti da Joseph. Sfondo una porta aperta se dico che Tusiani è stato di gran lunga il più prolifico traduttore in inglese della nostra letteratura.

In questo lavoro di traduzione è e resta ammirevole la sua innata capacità di saper splendidamente armonizzare quella misteriosa “esitazione prolungata fra senso e suono” (Valéry) che ogni vera poesia sa consegnare a un lettore che abbia sensibilità e “orecchio”. Ecco, io sono persuaso che l’armonia segreta che scaturisce dalle traduzioni poetiche di Tusiani, sia dovuta “anche” alla sua straordinaria preparazione musicologica, ovvero alla sua capacità di cogliere nella poesia non solo l’anima che ne dà il senso più profondo, ma anche quelli che Contini un tempo definiva i valori “fonosimbolici” di un testo poetico; in definitiva, appunto, la sua musicalità.


Continuai la sua frequentazione e le mie visite anche quando si trasferì a Manhattan, dopo la morte della madre Maria Pisone, avvenuta alla veneranda età di 95 anni.
Rivedo mentalmente Joseph mentre ci gustiamo un Martini Gibson, da lui finemente approntato: gin, poche gocce di vermouth secco, ghiaccio. Il tutto shakerato esattamente diciannove volte, e corredato di cipolline bianche (questa la ricetta precisa di Joseph).
Questi ultimi quattro decenni sono stati tra i più fecondi di Joseph.

Anni in cui egli lavorò intensamente alla sua autobiografia (La parola difficile, La parola nuova, La parola antica, tre volumi usciti rispettivamente nel 1988, 1991, 1992); tradusse tutte le rime dantesche (Dante’s Lyric Poems), e soprattutto lavorò all’immane opera di traduzione di tutto il Morgante. La pubblicazione, avvenuta nel 1998 con l’Introduzione e Note di Edoardo Lèbano, per l’Indiana University Press, segnò un evento storico per l’Italianistica angloamericana. Quando la mastodontica opera venne presentata l’anno seguente a Chicago, mentore Paolo Cherchi, si parlò del “sogno di Byron realizzato” (com’è noto Byron fu il primo traduttore del Morgante, arrendendosi dopo il primo Canto). Sto vertiginosamente sintetizzando solo alcuni dei maggiori achievements tusianei di quegli anni.
Il momento più gradevole delle mie visite è quando Joseph, garbatamente pungolato da me, si siede all’organo e suona qualche pezzo di Bach.

Questo è il momento davvero magico e il più meditativo dei miei incontri con lui; “magico” forse anche per la luce chiaroscurale che si diffonde, si versa (uso questo verbo pensando ad alcune poesie di Baudelaire) nello spazio del suo studio, ed io lo ascolto in silenzio vagando con i miei pensieri. Mozart e Bach erano di gran lunga i musicisti più amati da Joseph, che pure era innamorato della musica di Schubert e, fra gli italiani, di Pergolesi.
E sempre avrei continuato a fargli visita, quando circa ventidue anni fa egli si trasferisce nell’elegante appartamento di Manhattan sulla settantaduesima strada. Sono visite che faccio sempre volentieri, qualche volta anche con Irene, e ogni volta ne traggo linfa preziosa.

Mi piace ascoltarlo con la sua voce calda, viscerale, che a volte in italiano, a volte in inglese, a volte in tedesco, a volte in latino, a volte in dialetto garganico, recita interi brani poetici, grazie alla sua prodigiosa memoria. Una memoria che nella mia ormai ben lunga esperienza americana ho riscontrato soltanto in un altro uomo, coetaneo di Joseph: Dante Della Terza.
Sono anni, questi dell’ultimo trentennio, nei quali fra l’altro Tusiani dona la sua fertile collaborazione a vari periodici, in particolare a “Gradiva” e al “Journal of Italian Translation”, rivista diretta da Luigi Bonaffini. L’economia di questa testimonianza non mi permette di soffermarmi sull’apporto tusianeo in “Gradiva” (me ne sono occupato otto anni fa in una relazione da me presentata in occasione del convegno dedicato al Nostro presso l’Hunter College (Finding Joseph Tusiani: The Poet of Two Lands, 29 settembre 2012). Ma vorrei almeno menzionare le traduzioni di alcuni splendidi sonetti di Veronica Gambara (nn. 12-13, 1995); alcune nuove poesie di Joseph (n. 18, 2000); due poesie tuttora inedite in volume, una in inglese e una in latino (nn. 31-32, 2007); nonché – last but not least – due poesie autografe (anch’esse inedite in volume), a me generosamente dedicate (nn. 39-40, 2011).

E, visto, che sto accennando alla squisita generosità culturale di Joseph, non posso dimenticare la sorpresa che mi ha voluto fare anni fa pubblicando nel “Journal of Italian Translation” alcune mie poesie nella sua traduzione in latino. Tutto ciò, beninteso, sia detto con genuino sentimento di gratitudine e senza alcun velo di presunzione.
Ma della generosità culturale di Tusiani ci sarebbe tanto da dire se penso alle migliaia di studenti ai quali, in quattro decenni d’insegnamento, egli ha donato la sua scienza, la sua umanità, l’amore per la Poesia.
Devo chiudere, seppur a malincuore, questa testimonianza.

E allora, caro Giuseppe, se mi senti da Lassù, ti dico solo e semplicemente GRAZIE. Grazie della tua amicizia; grazie del tuo sapere che hai condiviso con me tante volte; grazie della tua grazia ironica e discreta, da vero gentleman della nostra cultura; un’ironia arguta, la tua, che sa essere anche autoironia, in certe tue battute facete e fulminanti, come quella che mi facesti durante la mia ultima visita tre anni fa, in cui alla mia domanda «Come te la passi?», tu mi dicesti che andava tutto abbastanza bene, a parte le mie gambe malferme…. Io allora ti suggerii scherzosamente di usare un bastone, alla Oscar Wilde; un bastone che avrebbero aiutato le tue gambe e ti avrebbe perfino donato un’aria un po’ dandy. Tu mi ricordasti, da buon classicista quale eri, e con la tua buona dose di autoironia, che “bastone” in latino si dice baculus, lemma dal quale è poi derivata la parola “imbecille”, ossia di persona un tempo ritenuta debole, priva di sostegno (priva di bastone); significato che, per estensione, ha finito, in seguito, per indicare una persona poco intelligente. Due giorni dopo mi mandasti una mail nella quale mi invitavi a colazione. Quel messaggio si concludeva argutamente così:«Un abbraccio da uno cuius crura imbecillia facta sunt aeatatis causa».
Ciao, Joe, questa sera brinderò alla tua salute con quel tuo mitico Martini Gibson!

Luigi Fontanella
Stony Brook, 11 aprile 2020




Luigi Fontanella, nato nel 1943, è ordinario di Lingua e Letteratura Italiana presso la State University di New York. Ha pubblicato numerosi libri di saggistica ed edizioni di autori contemporanei: “I campi magnetici” (trad., introd. e note di “Le champs magnetiques” di A. Breton e P. Soupault), Newton Compton, 1979; “Il surrealismo italiano”, Bulzoni, 1983; “La parola aleatoria. Avanguardia e sperimentalismo nel Novecento italiano”, Le Lettere, 1992; “Storia di Bontempelli”, Longo Editore, 1997; “La parola transfuga: scrittori italiani espatriati in America”, Firenze, Cadmo, 2003; “Racconti di Murano” di Italo Svevo, Ed. Empiria, 2004, “Pasolini rilegge Pasolini” (Archinto, 2005), “Giuseppe Berto: Thirty Years Later” (Marsilio Editore, 2009); “Soprappensieri” di Giuseppe Berto (Aragno, 2010); “Paolo Volponi: L’inedito Di New York. Conversazioni con Luigi Fontanella” (Aragno, 2012); “Migrating Words. Italian Writers in the United States” (Bordighera Press, 2012); “La coscienza di Zeno di Italo Svevo”, Giunti Editore, 2017. Tra le sue pubblicazioni più recenti di poesia: “L’angelo della neve. Poesie di viaggio” (Mondadori, “Almanacco dello Specchio”, 2009), “Bertgang” (Moretti & Vitali, 2012, Premio Prata, Premio “I Murazzi”), “Disunita ombra” (Archinto, RCS, 2013, Premio “Città di Sant’Anastasia”), “L’adolescenza e la notte” (Passigli, 2015, Premio giuria-Viareggio); “Monte Stella” (Passigli, 2020). Di narrativa: “Hot Dog” (Bulzoni, 1986); “Controfigura” (Marsilio 2009); “Il Dio di New York” (Passigli, 2017). Ha diretto per quasi 40 anni “Gradiva” (Olschki), rivista internazionale di poesia e poetologia italiana (Premio per la Traduzione, Ministero dei Beni Culturali), di cui ora è Senior Editor; presiede la IPA (Italian Poetry in America). Nel 2014 gli è stato assegnato il Premio Nazionale Frascati Poesia alla Carriera.

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