In questo articolo di Valter Luca De Bartolomeis – Dirigente ( e non solo) dell’ Istituto ad indirizzo raro “Caselli-De Sanctis” immerso nel Bosco di Capodimonte e in proficua collaborazione con l’omonimo famoso Museo – emerge una densità narrativa simile ad un raggio di laser che dà corpo all’intreccio del presente – fermata – con il passato recente – tratteggiato da un’ impareggiabile rinascita di un Istituto, prima dimenticato anche se prestigioso nella storia della nostra Napoli – al futuro già in itinere: intessitura che reclama rinnovati paradigmi di lettura, rielaborazioni inedite di modalità e realizzazione di lavoro quotidiano con progetti “di ampio respiro”, più idonea e valorizzazione del nostro patrimonio formativo nell’artigianato, nel design per espandersi sempre più e con coerenza nell’Arte.
Rosanna Bonsignore
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RIPARTIAMO DALL’ARTE, DAL DESIGN E DALL’ARTIGIANATO
di Valter Luca de Bartolomeis
In questo momento doloroso e difficile il mio pensiero va spesso ad una categoria che conosco bene, agli artigiani della porcellana, da quelli in formazione a quelli esperti, con cui condividevo buona parte delle mie giornate.
Eravamo immersi in una densa atmosfera creativa e produttiva. Costruivamo insieme scenari, realizzando nuove collezioni della Real Fabbrica di Capodimonte, sviluppando i tanti bellissimi progetti che avevamo messo in campo, arrivando da Napoli a collaborare con musei, gallerie, enti, aziende, artisti e designer di livello internazionale come Liu Jianhua, Walead Beshty, Yee Sookyung, Santiago Calatrava o Patricia Urquiola in collaborazione con Edit Napoli. Formando, attraverso tutto questo, nuove generazioni di artieri interconnessi ogni giorno ad un mondo variegato fatto di creatività e multidisciplinarietà.
In una corsa continua contro il tempo non abbiamo mai rinunciato al caffè tutti insieme, alle risate e alle prese in giro, mai abbiamo rinunciato allo spazio per sperimentazioni e ricerche malgrado le scadenze e le consegne. D’altronde, me lo hanno insegnato anche loro, le cose belle hanno bisogno di tempo per maturare, di tempo per essere fatte bene, di pause per riflettere, per rivedere a distanza i risultati, di relazioni umane significative.
La porcellana poi esige rispetto, dei suoi tempi, e l’attenzione alle condizioni al contorno, ad esempio al vento, all’umidità, al calore. Non si scappa, occorre muoversi e andare piano, occorre saper aspettare, che essicchi la materia, che cuocia tutta la notte sperando che non faccia strani scherzi il giorno dopo! Occorrono tempo e pazienza, me lo ripetono sempre, rassegnarsi al fatto che decide lei, la materia, e che può anche essere necessario ripartire da zero, buttare tutto per colpa dell’imprevisto e ricominciare. Bisogna entrare in sintonia con i processi naturali e accoglierli. Ho trovato con loro una modalità possibile, un’intesa: “Festina Lente”, affrettiamoci lentamente, operiamo decisi ma con calma. Potrebbe essere un modo per affrontare l’attuale emergenza sanitaria.
Così ci ha trovati il primo decreto che sospendeva le attività in presenza. Per un artigiano non è possibile produrre in smart working! E dunque si è fermato quasi tutto. Penso allora a cosa stia succedendo ai tanti artigiani custodi di antichi saperi e di quel Know how che ha reso il nostro paese unico nel mondo e che ancora ci identifica, a tutti i prosecutori di antiche manifatture ed eccellenze del made in italy impegnati in un battaglia di resistenza!
Almeno 7 miliardi di euro. A tanto ammonta la stima della perdita di fatturato che a livello nazionale le imprese artigiane subiranno in questo mese di chiusura a causa del coronavirus (dal 12 marzo al 13 aprile 2020). A fare i conti è stato l’Ufficio studi della Cgia. I comparti più colpiti sono anche quelli più rappresentativi di tutto il settore. Tuttavia proprio per l’artigianato e, più in generale, per il mondo della produzione di oggetti, potrebbero verificarsi opportunità nuove. Un nuovo posizionamento di senso. Confido in un mondo nuovo più attendo ai valori duraturi e alla bellezza delle cose destinate a permanere, partendo da quello che stiamo riscoprendo in questi giorni di isolamento. Chi sta rispolverando vecchi servizi di piatti o fotografie, tovaglie, posate chiuse nei cassetti dell’iperconnessione, gioielli tramandati da generazioni, chi sta approfittando per fare pulizia nelle proprie case, buttando molto del resto! Potrebbe nascere un’alba nuova dell’alto artigianato, o meglio di quello che mi piace definire l’”Artidesign”!
Nel quadro di generale depressione da quarantena, mentre il virus si prepara a espandersi in altri paesi, arriva Lidewij Edelkoort, visionaria intellettuale olandese, esponente della nuova specie dei “design setter” nonché sostenitrice di una moda più ecologica. Dichiara che “il coronavirus è una stupefacente benedizione per il pianeta… dobbiamo essergli molto grati perché potrebbe essere la ragione per cui sopravvivremo come specie”. Spiega meglio: “Il virus farà rallentare tutto, vedremo un arresto nella manifattura dei beni di consumo. Tutto ciò “è terribile e magnifico, perché abbiamo bisogno di fermarci nel produrre a questa velocità” ha detto la Edelkoort, che è stata consulente per molti marchi globali non proprio fautori della decrescita felice. “Abbiamo bisogno di cambiare il nostro comportamento per salvare l’ambiente… dapprima le persone proveranno a lavorare via Skype, ma non funzionerà. Questo effettivamente è vero, soprattutto se non c’è la banda larga o se larghe fette della popolazione non hanno mai fatto una conference call in vita loro”. Ma invece di un’alfabetizzazione digitale rapida, Edelkoort auspica piuttosto una specie di nuova autarchia felice. “Confinati nelle nostre città, ci sarà il rilancio dell’artigianato e le persone apprezzeranno di più i beni prodotti localmente“, sostiene. Lontano dal ritenere questa pandemia una benedizione, concordo sulla necessità di trasformare questa minaccia in un’opportunità di crescita collettiva che rilanci le produzioni locali e restituisca un senso nuovo al nostro rapporto con gli oggetti d’uso e con gli spazi di vita. Da dove partire?
Già prima del cononavirus alcuni segnali di crisi dell’attuale sistema di prodotti, luoghi e relazioni erano emersi. Nel contingente scenario di “bidimensionalizzazione profonda” della cultura e della nostra vita sono andati in crisi tutti gli schemi di percezione in gran parte derivati da una visione meccanicistica del corpo umano. Siamo prigionieri dei nostri nuovi spazi di vita, tra reti di relazioni e nuove gestualità, quasi immateriali, che Lev Manovich, artista e professore all’Università della California di San Diego, aveva definito con la nozione di “spazio aumentato” (augmented space). Manovich parla di flussi, dati invisibili che attraversano (o aumentano) lo spazio e possono essere catturati in ogni momento con telefoni cellulari, connessioni wi-fi, dispositivi a infrarossi o tecnologia bluetooth. Lo spazio aumentato è uno spazio essenzialmente relazionale non lontano dall’idea usata, già una ventina d’anni fa, da Negroponte per descrivere il futuro in termini di “flusso vivo e ininterrotto, ricco di interazioni” che “connota la complessa rete di relazioni tra le persone e tra le persone e gli oggetti”. In questo spazio c’eravamo già e ci sentivamo molto potenti. L’avanzamento tecnologico ha reso possibile un mondo dai confini sempre più evanescenti. È accaduto per gli oggetti moderni, come spiega Jean Baudrillard, pensati per una gestualità minima, attraverso i quali abbiano realizzato una vera e propria elisione del corpo dalla vita quotidiana. Artefatti cognitivi valutabili, più che per la loro “dimensione prensile”, per il grado di coinvolgimento interiore che riescono a generare, determinando conoscenza, accrescimento dell’esperienza o una semplice riflessione. Lo stesso è accaduto per lo spazio in cui viviamo, fatto di informazioni, immagini, relazioni, nel quale si intersecano strutture fisiche e informazioni immateriali. Uno spazio relazionale che riporta all’idea giapponese di “ma”, che Derrick de Kerckhove ha usato per delineare il futuro in termini di “flusso vivo e ininterrotto”. L’evoluzione del sistema tecnico ha offerto infinite opportunità ma, nel “flusso”, ci siamo resi conto improvvisamente che il problema è legare questo quadro di opportunità alle mutazioni del quadro socio-culturale “globale”, che occorre gestire il sistema di relazioni in cui viviamo evitando di essere travolti senza che resti traccia nella nostra memoria. Ci siamo resi conto che questo sistema di opportunità può essere privo di qualità e niente affatto desiderabile se manca il legame di senso. L’assenza è la più forte delle presenze ed ecco che, nell’isolamento, è apparso finalmente chiaro che le connessioni pressocchè infinite di cui disponiamo non hanno valore in mancanza di un recinto fisico in cui seminare queste opportunità come fertilizzante per il nostro terreno mentale e emozionale. Rischiamo il paradosso di incoraggiare gli scambi superficiali a scapito di quelli profondi. Più gli scambi sono brevi, volanti, superficiali, più consentiamo di interrompere conversazioni in corso, minore è lo spazio lasciato alle relazioni profonde. “Attenzione continuamente divisa” così Linda Stone ha descritto questo fenomeno, che, pur generando non poche frustrazioni, è diventato un aspetto comune della vita quotidiana.
Il problema vero è quello della qualità diffusa delle convenzioni linguistiche e prestazionali che si mettono in atto. Come orientarsi per scegliere i codici cui riferirsi? Se ad esempio per un artigiano del passato operare all’interno di codici convenzionali era del tutto naturale in quanto ci era nato dentro, per il progettista diffuso odierno il primo problema è quello di come sceglierli.
Orientarsi nell’iperscelta di tecnologie e di linguaggi disponibili è già il primo livello della sua “arte”. Aiutare a sviluppare questa capacità è uno dei compiti prioritari della didattica dell’arte, che ritengo in questo momento fondamentale per fornire nuovi strumenti di visione a generazioni che dovranno inevitabilmente fare i conti con i cambiamenti necessari, all’interno dei caratteri specifici del sistema tecnico, sociale, culturale e ambientale contemporaneo.
È necessario tenere conto che la diffusione dei risultati della tecno-scienza nell’ambiente quotidiano ha portato a una “fluidificazione della materia” e un’”accelerazione del tempo”. La materia, che è sempre stata la controparte solida, stabile delle idee, è diventata duttile e plasmabile in ogni possibile forma.
Ciò comporta un cambiamento radicale dell’ambiente artificiale che si presenta dematerializzato nella virtualizzazione dell’esperienza, e nel modo in cui si produce, non più una tassonomia data di materiali e tecniche produttive ma con un continuum di possibilità.
Il significato dei termini «progettare», «produrre» e «consumare» va rivisto alla luce della consapevolezza che l’ambiente non è illimitato e riducibile alla semplicità ma altamente complesso e condizionato in maniera imprevedibile dal sistema in cui si opera.
Tutto questo non sarà facile e dovrà portare ad una grande stagione di innovazioni socioculturali e comportamentali, oltre che progettuali e produttive. Affinché si verifichino le condizioni per questo cambiamento bisognerà, prima di tutto, formare nuove generazioni all’interdisciplinarietà, alle competenze di cittadinanza attiva e partecipata, sia nelle scuole che nelle università. Nulla di nuovo in realtà, peccato che questo cambiamento, già contemplato dall’attuale normativa, ancora non si sia compiuto. Forse questa è l’occasione giusta. Per cui, oltre a preoccuparci delle modalità in presenza o a distanza della didattica, sarà necessario ragionare su modalità ibride, sull’interscambio di questi approcci. Abbandonare il lavoro per discipline, una forma di individualismo che non possiamo più permetterci, per abbracciare la complessità anche nella didattica. Solo così i giovani potranno imparare a scegliere, a stabilire urgenze non aprioristiche o ideologiche, per assumere comportamenti e raggiungere soluzioni “ambientalmente preferibili”.
L’artigianato questo lo sa già, cerca da sempre la soluzione più idonea adattandosi e piegandosi umilmente ai contesti per ottenere, nei limiti posti, la soluzione migliore, preferibile, per raggiungere il “fatto bene”.
Questo approccio è nella tradizione ma torna, oggi, ad essere incredibilmente attuale.
Non è possibile riempire il mondo di una quantità incontrollata di segni. La “liberalizzazione delle forme” permessa dalla tecnica può anche corrispondere alla produzione di un grande “rumore”. Le produzioni industriali hanno concentrato tutto in grandi agglomerati, con una localizzazione massiccia, una sorta di urbanizzazione spinta delle produzioni, che ha generato, nel caso ad esempio degli allevamenti di animali, la propagazione dei virus.
Tener conto di questo fatto significa collegare i prodotti al loro ambiente, non produrre solo nuove immagini, ma costruire delle identità stabili e durature, capaci di agganciarsi allo spazio culturale in cui vengono immesse.
Potremmo accogliere la visione di George Kubler: Supponiamo che il nostro concetto dell’arte possa essere esteso a comprendere, oltre alle tante cose belle, poetiche e non utili di questo mondo tutti in generale i manufatti umani, dagli arnesi di lavoro alle scritture.
Accettare questa premessa significa semplicemente far coincidere l’universo delle cose fatte dall’uomo con la storia dell’arte, con la conseguente e immediata necessità di formulare una nuova linea di interpretazione nello studio di queste stesse cose.
Ciò apparirà più facile se si sceglierà di procedere dal punto di vista dell’arte anziché da quello dell’«uso», giacché se partiamo unicamente dall’uso saremo portati inevitabilmente a trascurare tutte le cose non utilizzabili, mentre, se consideriamo la desiderabilità delle cose, allora saremo capaci di vedere gli oggetti utili nella giusta luce di cose a noi più o meno care.
Il senso di questa citazione implica una definizione dell’attività di design condivisibile. Come afferma Manzini: il design è un’attività che concorre a rendere abitabile il mondo. Ad organizzarlo cioè in modo che le cose di cui ci si circonda e gli ambienti in cui si vive siano «desiderabili e cari», oltre che utili. È questa una definizione che potrà sembrare generica e ovvia, ma che in fondo, nella storia della cultura del design, è sempre stata contraddetta, per diversi motivi che vanno da quelli più ovvii relativi al rapporto tra «artista» e tecnica, alla necessità che il prodotto debba essere anche «utile» in senso stretto, al di là cioè dell’affermazione estensiva che “il bello è utile”, ma che arrivano anche alle ragioni culturali profonde che portano ad essere “desiderabile” e “caro” un prodotto, per la sua capacità di essere una presenza dialogante, un attore capace di lasciar parlare altri attori.
Prodotti immaginati più per la loro presenza espositiva che per la loro effettiva possibilità di vivere in uno spazio abitato, non solo non generano reali qualità abitative ma, diffondendosi nell’ambiente, concorrono alla produzione di quella grande confusione di segni che Manzini ha definito “inquinamento semiotico” (cioè concorrono alla produzione di quella forma di inquinamento immateriale che costituisce oggi uno dei principali terreni su cui si articola la problematica ambientale).
Sfumiamo allora i confini tra arte, design e artigianato e leggiamo questi fenomeni come interconnessi e finalizzati alla produzione di un bello rinnovato, ricco di senso, dove gli oggetti non siano solo esposizione o mera utilità, ma siano “cari” e “desiderabili”. Cominciamo col trasmettere ai giovani questa consapevolezza per la progettazione di un mondo nuovo, di un equilibrio sociale ed economico compatibile. L’Arte, al cui interno possiamo comprendere anche l’artigianato e il design nella visione proposta da Kubler, è “ascoltare la società”: una definizione, tra il rivoluzionario e l’ovvio, di Andrea Cancellato e Stefano Micelli, a cui non sarà mai superfluo riferirsi, nell’ottica di un progressivo ritorno alla vita post crisi sanitaria.
Occorre, ne sono convinto, una nuova “ecologia dei sensi” in cui il dialogo continuo tra scienza e natura conduca a scelte non predeterminate ma “ambientalmente preferibili”. L’ambiente è un sistema ad alta complessità, composto da svariati elementi interdipendenti. A questo sistema appartengono sia componenti oggettive e misurabili, fatte di dati quantitativi, sia componenti che si riferiscono ai valori, ai bisogni dell’uomo e ai i suoi sistemi di aggregazione. La pluralità degli aspetti coinvolti e le relative connessioni determinano anche la necessità di riguardare il problema delle relazioni umane come discorso di comunità globale, non certo dei singoli cluster: problemi tecnologici, sociali e produttivi sono, come sostiene Mauro Ceruti, i “fili di una globalizzazione antropologica, economica e politica.
Nella “Solitudine del cittadino globale” Zygmunt Bauman afferma che le politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni hanno posto le condizioni per lo sgretolamento del tessuto sociale, esaltando la libertà dell’individuo a scapito della dimensione collettiva. Ma una simile libertà, basata sull’assenza di limiti, sul disinteresse al bene comune e sul conformismo, è in realtà illusoria per la sua sudditanza ai modelli e ai consumi imposti dal mercato, e ha come conseguenza l’aumento dell’impotenza collettiva e la paralisi della politica, diventata sempre più locale e insignificante. Da qui, afferma Bauman, deriva la tormentosa sfiducia esistenziale che caratterizza l’uomo dell’Occidente, il suo senso di solitudine e precarietà. E non servono a molto i tentativi dei governi di concentrare questa inquietudine sul solo tema della sicurezza personale. Si fa sempre più urgente, invece, la necessità di ridare il giusto spazio alla collettività e ridefinire la libertà individuale partendo dall’impegno collettivo. La politica deve ritrovare il suo spazio. Bauman lo individua nell’antica “agorà”, luogo privato e pubblico al tempo stesso. Qui l’uomo occidentale potrà tornare a interrogarsi. Potrà tornare umile, rivedere la politica come servizio per la collettività con il coraggio di fare scelte, fuori dal quadro della polemica sterile ma all’interno di una visione di crescita comunitaria. La didattica torni ad essere il luogo della formazione prima ancora che dell’istruzione. Gli oggetti e i luoghi tornino ad essere valori duraturi e non mezzi evanescenti di consumo e la natura, come suggerisce l’antico sapere degli artigiani, torni ad essere la “giusta misura” delle nostre libertà.