Qualche giorno fa, ho visto in tv scene e persone dai “bassi”. Le virgolette servono a segnalare l’estensione del termine dalla sua concretezza architettonica alla condizione di chi vive senza luce (termine ad alto potenziale metaforico ampiamente abusato che, quindi, evito di sfruttare). Mi torna in mente il racconto di Annamaria Ortese “Un paio di occhiali”. Occhiali che, nel finale amaro, la bambina rompe perché trova insostenibile la nettezza con cui le si presenta il degrado del mondo in cui vive.
Alle nostre latitudini culturali, assistiamo a un avvincente susseguirsi di letture, analisi, proposte e ipotesi per immaginare il futuro che, dopo l’esperienza attuale speriamo più consapevole e più giusto. Guasto è il mondo, scriveva Tony Judt già molto tempo fa. Oggi, il mondo è anche malato. La malattia, qualunque essa sia, genera di per sé una condizione di isolamento, perché rileva l’irriducibile singolarità del corpo. Solitudine.
In questo tempo di reclusione, malati sani perché mutilati della nostra dimensione sociale, costruiamo difese fatte di parole, tante, per dare forma alle angosce, al vuoto, alle speranze.
Con le parole, attingiamo al patrimonio condiviso (quindi, alla socialità) del pensiero. L’ho già scritto, ma lo ripeto: pensiamo in parole, i nostri pensieri, la loro profondità, l’articolazione, la loro adeguatezza alle diverse situazioni, dipendono dalla quantità e dalla qualità delle parole di cui disponiamo.
E vengo al punto.
Una delle disuguaglianze più crudeli che emerge prepotente in questo fermo giostra è la povertà cognitiva, fenomeno preoccupante quanto, se non più, della povertà economica, e a essa – generalmente, ma non solo – connesso (spesso, coincidente). Si tratta di un’amputazione permanente del sé, una riduzione alla nuda vita.
La donna che nel servizio del tg sbraitava, lamentando l’impossibilità di restare rinchiusi in 30 metri quadrati, rivendica il diritto vitale (!) allo spazio esterno, perché quello è per lei l’unico spazio di confronto, d’incontro, di giudizio. Lo spazio della vicinanza dei corpi, non surrogato dalla vicinanza dei pensieri. È ovvio che, in quota rilevante, la vicinanza fisica sia irrinunciabile per chiunque (salvo per chi tale condizione l’abbia eletta, la storia è piena di esempi alti), ma l’esservi obbligati/e genera reazioni differenti. Il concetto di temporaneo – tanto per fare un esempio – necessita della disponibilità del suo significante per sprigionare, in questo caso, il suo potenziale rassicurante. Come rassicuranti risultano, per coloro che vi si possono dedicare, le riflessioni e le elaborazioni teoriche di cui sopra. Tutte intessute di materiale lessicale.
L’immaginazione è creazione di realtà prima o non ancora esistenti, dunque astrazione. Nel caso in specie: conforto.
“Se il padrone conosce 1000 parole e tu ne conosci solo 100, sei destinato a restare servo” diceva Don Milani.
La vita al tempo del corona virus ha messo gli occhiali alla donna del basso. E lei non può fare altro che romperli.
Quando tutto questo sarà finito, ricordiamoci di pretendere che tra le priorità sia inserita la lotta senza quartiere alla povertà cognitiva.
Iaia de Marco
Viva l’immaginazione! La mia amica complice più bella immancabile nei miei periodi più duri….e poi è una risorsa per intraprendere i percorsi culturali interessanti senza annullare il rigore metodologico. Da non dimenticare, come evidenzia Iaia.