In questa settimana la mia mente, in tutto o in parte, è stata, ed è, occupata dall’epidemia e dalle sue conseguenze immediate.

È, al tempo stesso, qualcosa di più e qualcosa di meno di un pensiero, è una razionalità di carne, un inconscio emergente che induce un sentimento di sospensione cui non siamo granché abituati, benché sarebbe naturale che accompagnasse ogni nostro giorno, ma che invece, per fortuna quasi sempre riusciamo a rimuovere con scaltrezza.

Ora, la sospensione è diventata la cifra della nostra esistenza quotidiana. Vi stiamo rispondendo con sgomento disciplinato. Il che è, tutto sommato, una sorpresa positiva (proprio non ce la faccio a usare ‘bella’). Una inedita propensione all’obbedienza ordina i nostri giorni e i nostri comportamenti. Non mi sembra né cupa né entusiastica, nulla a che fare con i richiami epici ed eroici delle dittature o delle distopie letterarie. Piuttosto l’obbedienza necessaria cui ci si adatta perché i termini – sostanziali – della questione sono chiari. Non così i tempi, da qui la sospensione che ingrigisce l’anima.

Perché il tempo è fuori dal nostro controllo. Non sappiamo quanto ce ne tocca e se sarà sufficiente all’attesa. In ogni caso, questa condizione toglie fiato all’attività più gratificante della nostra mente che è progettare, quindi il futuro. Parlo di quello minimo, quello legato alle nostre attività quotidiane.

C’è solo una cosa che mi infastidisce di più delle misure di restrizione: i suggerimenti su come occupare questo inatteso ‘tempo liberato’.

La maggior parte delle occupazioni che ci vengono consigliate da ‘chi non può più dare il cattivo esempio’ sono quelle che catturano molte e molti di noi da sempre, e nelle quali, insieme agli obblighi di lavoro, spendiamo tutto il nostro tempo, generandone un deficit che tende all’infinito, come il nostro debito pubblico.  Dunque, quale migliore occasione per approfittare della reclusione per ridurre un po’ di quel debito?

Non è facile. Non per me, almeno.

L’alterazione della scansione giornaliera da un lato, l’occupazione che l’epidemia fa del cervello dall’altro, alterano la (mia) capacità di concentrazione. Come se, in sottofondo, o tra le righe, o in un affioramento carsico, la scomoda sensazione di vanità dell’agire umano mordesse a sangue.

Mi mancano molte cose, molte persone. Mi manca la possibilità di pensare la fuga. La salvezza sta nella fuga. La mia fuga settimanale a portata di mano è, normalmente, uscire in barca. Anche solo a fare due bordi, come diciamo in gergo, o poco più in là, dove ci porta il vento.

L’unica novità davvero piacevole è il silenzio. Il silenzio della città (Napoli, quanto Pozzuoli), quel suo ritirarsi quasi raccolto, finalmente ferma, o almeno rallentata, sfrequentata, restituita a sé stessa. E alle nostre orecchie. Ora possiamo avvertirne il respiro, la sua variazione, il ritmo segreto e naturale che l’accorda al giorno o alla notte, e a tutte le gradazioni tra essi comprese. Sto bene in questo silenzio che non è di morte, ma di pace.

Sicuramente dormiamo meglio.

Iaia De Marco . Dottore di ricerca in Letterature romanze comparate , attualmente insegna Letteratura portoghese all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Autrice di Saggi e Ricerche. Ha tradotto diversi Romanzi e Opere dal Portoghese.

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1 commento

  1. Non è un commento, ma un errata corrige: nel primo rigo c’è un “non” abusivo. La farse corretta è “…la mia mente, in tutto o in parte, è stata occupata…”

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