Se una cosa sta portando con se questo virus, insieme a tutte le preoccupazioni e alle sofferenze per tanti, è, FINALMENTE, il superare l’idea che sostanzialmente si potesse fare a meno di un sistema sanitario pubblico, moderno, attrezzato, su cui investire sempre di più e meglio : necessità peraltro dettata anche dal fatto che la composizione della società muta e quella italiana è segnata in modo particolare da un suo invecchiamento. E lo vediamo bene con i dati delle morti di queste settimane. Su questo, il tema dell’invecchiamento, riprendo la segnalazione di un articolo fatta da Massimo Menegozzo http://( http://www.noisiamopronti.it/2019/07/26/litalia-e-il-paese-piu-vecchio-del-mondo-insieme-al-giappone-ridisegnare-il-ssn/ ) , mentre trovate, a piè pagina, su questo cruciale tema, che investe il bisogno di un radicale ripensamento di tutta l’organizzazione dello Stato sociale un interessantissimo contributo di Antonella Pezzullo, Segretaria nazionale dello Spi CGIL comparso su INFINITIMONDI 12/2020.
Quindi, viene spazzata via l’idea che del Sistema di Sanità pubblica si potesse fare a meno o che lo si dovesse comprimere, sia per ridurre i costi e sia per fare andare avanti processi spinti di sua privatizzazione: questo è stato il mantra delle politiche di rigore di bilancio e di austerità figlie dell’idea che ci fosse troppo pubblico, che il neoliberismo fosse il faro capace di assicurare di più e meglio a tutti…
Tutto questo viene spazzato via. E, il Sistema sanitario pubblico è quello che sta reggendo la sfida, dopo i tanti colpi subiti. E va detto che non sta scritto da nessuna parte che non potesse essere più attrezzato di come sia oggi.
Su il Manifesto di ieri , Marco Revelli, in un pezzo di grande interesse ( lo trovate a https://ilmanifesto.it/siamo-arrivati-a-una-sorta-di-ground-zero/ , e davvero ancora un COMPLIMENTI agli amici de il Manifesto che hanno deciso di rendere fruibile in modo free la loro versione on line ), ci fa riflettere su qualche dato : in Italia vi sono 5000 posti di terapia intensiva contro i 28.000 della Germania. In dieci anni sono stati tolti agli investimenti in Sanità 35 miliardi di euro e tagliati 70.000 posti letto. Oggi, stiamo facendo la corsa a ripristinarne quei tanti necessari! Sempre da il Manifesto, quello di oggi, Andrea Capocci ci racconta nel suo pezzo che il rapporto di posti letto terapia intensiva per ogni 100.000 abitanti è di 30 in Germania e di 12 in Italia. In Inghilterra il rapporto è di 7 su 100.000 abitanti: gli effetti della privatizzazione spinta di quel sistema sanitario si vedono.
Occorrerà tornare su tutto questo, dopo l’emergenza. Ma intanto è bene averlo chiaro.
Un’altra idea che il virus spazza via è quella che potesse reggere un Sistema Sanitario frantumato in 20 micro sistemi regionali: e lo si è visto nelle prime giornate dell’emergenza. La frantumazione, accentuata dalla riforma del Titolo V della Costituzione di 19 anni fa, di marca Centrosinistra, ha poi determinato un andamento differente tra Regione e Regione, tra le diverse Aree del Paese. E su tutto ciò hanno pesato poi le politiche di rigore e di austerità imposte dal modo neoliberista di affrontare la crisi del neoliberismo… Già l’altro anno, il mai tanto famoso come in questi giorni Walter Ricciardi, ancora da Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, aveva avuto modo di lanciare un grido di allarme che avrebbe meritato ben altra attenzione: a 10 anni dalla crisi del 2007/2008, l’età media che prima di essa era al Sud superiore rispetto al Nord, aveva visto una inversione. Oggi al Sud si vive mediamente 3 anni in meno rispetto al Nord. Un dato clamoroso nel quale pesa molto l’indebolimento di tutto il sistema Socio-Sanitario meridionale. Colpito dalla locale ‘politicizzazione’ della Sanità non meno che dalle politiche nazionali.
Isaia Sales su il Mattino di ieri sviluppa una interessante riflessione critica e autocritica sul regionalismo del Sud definendola una ‘occasione sprecata’. Ragiona Isaia infatti su cosa sarebbe successo verso il Sud se l’epidemia fosse da qui partita, le montagne di razzismo che si sarebbero levate…ma anche sul fatto che qui, probabilmente, non si sarebbe retto l’urto, proprio per le condizioni della sanità meridionale.
Sul tema dell’occasione sprecata, e forse anche più che sprecata…, ci siamo permessi di scrivere, prima dell’arrivo in Italia dell’epidemia, nell’editoriale di INFINITMONDI 13/2020, ragionando, con l’Emilia, sul voto in Calabria…e come sembra lontano oggi tutto questo…
” E la Calabria?
Questa ricchissima e dolentissima regione è diventata metafora dell’intero Mezzogiorno. Non ci spieghiamo lo sbandamento di oggi, l’affidarsi a improbabili salvatori protettivi senza interrogarci su quanto il Mezzogiorno sia scomparso dall’agenda nazionale per eguale e comune responsabilità di tutti coloro che il paese l’hanno governato negli ultimi venti anni: centrodestra e centrosinistra, impegnati sostanzialmente in una rincorsa mefitica.
E non ci spieghiamo lo sbandamento di oggi, già manifesto nel plebiscito ai 5 Stelle delle ultime politiche, senza fare un bilancio critico dell’esperienza di governo del centrosinistra nelle Regioni del Sud, a lungo tutte da esso governate con la propria azione, il più delle volte, chiusa in un mero orizzonte di potere.
Vogliamo ripartire da qui allora? Vogliamo farci una riflessione in vista dei prossimi appuntamenti, a cominciare dalla Campania e dalla Puglia?...”.
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DA INFINITIMONDI 12/2020
INVECCHIARE IN CAMPANIA
LA SFIDA EVOLUTIVA DELLA DEMOGRAFIA
di Antonella Pezzullo
Fra le tante trasformazioni che si annunciano in questo primo secolo del nuovo millennio, una promette di rappresentare un cambiamento che merita di essere definito epocale, per i suoi effetti radicali e ad altissimo impatto sulle molteplici dimensioni, biologica, sociale, economica della vita sul pianeta.
La popolazione planetaria infatti non solo cresce in modo esponenziale, ma la caratteristica inedita di tale crescita è che le persone vivono molto più a lungo e che quindi la società è in costante, progressivo, veloce invecchiamento.
Siamo la prima società dell’umanità a conoscere questo fenomeno perché è la prima volta che il pianeta è abitato da una generazione così numerosa di anziani. Di più, per quanto possa sembrare sorprendente, nel prossimo futuro, e in alcune parti del mondo, il segmento di popolazione con più di ottanta anni sarà quello che presenterà la crescita più rapida.
Poiché si tratta di un evento inedito, e dalle conseguenze non del tutto prevedibili, non disponiamo di esperienza storica che possa suggerirci con certezza quali siano le risposte più indicate.
Tuttavia è intuitivo che un simile evento demografico interroghi profondamente i nostri modelli sociali, perché creerà tensioni inevitabili e ne metterà radicalmente alla prova le strutture e i sistemi, col rischio che molti di essi siano sovvertiti o crollino sotto la pressione di un simile cambiamento, primo fra tutti, e segnatamente in Europa, il sistema di Welfare.
Se poi guardiamo al nostro paese, cercando di comprendere quale è la declinazione locale di un fenomeno globale, dobbiamo ricorrere all’ausilio di qualche dato statistico che illustri in pochi tratti e in poche cifre una situazione che meriterebbe tutta l’attenzione di una politica responsabile.
L’Italia è il secondo paese più longevo al mondo, collocandosi subito dopo il Giappone e subito prima della Germania. Sono infatti queste le tre nazioni che Moody’s, nel rapporto sull’invecchiamento della popolazione mondiale, definisce le “super- anziane”
A questo primato contribuiscono in Italia più di 12 milioni su 60 di cittadini con età superiore ai 65 anni, che rappresentano circa il 22% della popolazione, ma nel giro di tre decenni essi ne costituiranno addirittura 1/3!
Quello del progressivo invecchiamento della popolazione rappresenta dunque una tendenza destinata a confermarsi e alla quale, nel nostro paese, si associa come co-determinante un fenomeno ulteriore, vale a dire il drastico calo delle nascite, che viene definito con un termine più che eloquente “gelo demografico”: in dieci anni sono stati infatti registrati 128mila nati in meno, cifre indicative di un processo che nell’ultima decade è apparso irreversibile.
Come dicono allarmati i demografi italiani di Neodemos, si tratta di un paese “arenato sul fondale, come un sottomarino che sembra aver perso la spinta per tornare ad emergere”.
L’Istat nel suo ultimo rapporto intitolato “Il futuro demografico del paese”, studiando le “piramidi demografiche”, che delineano la popolazione per fascia di età nei vari anni, parla di una base giovanile sempre più esile che si è dimezzata dall’inizio del secolo scorso, e che regge il carico di una popolazione sempre più vecchia.
Una società “childfree” che somma dunque all’invecchiamento da tempo in atto un “degiovanimento” più recente, le cui cause non sono né univoche né chiare. Su di esso infatti il dato economico sembra incidere senza tuttavia apparire determinante.
Se poi, continuando nell’esercizio di mettere a fuoco il fenomeno in territori geografici sempre più definiti, guardiamo al Sud del paese, l’Istat ci rivela che in futuro, in un’Italia in declino demografico, il Mezzogiorno sarà sempre più vecchio, povero e spopolato, tanto da far temere, se il trend non sarà arrestato, un processo di estinzione.
Nel Meridione infatti, che è stato per anni la “riserva demografica” dell’Italia e dell’Europa, entro il 2065, secondo lo scenario delineato dall’Istat, si conterà 1/4 di popolazione in meno, mentre la media dell’età salirà a 50 anni entro il 2045. Si assisterà inoltre ad una riduzione, più rilevante che nel resto del paese, della quota di giovani fino a 14 anni di età, con il rischio di passare dal 14 all’11%, mentre la popolazione anziana potrebbe crescere fino al 36%.
A rendere questi dati ancora più drammatici è l’emorragia di giovani adulti, spesso qualificati, che lasciano il Sud: fra abbandono e rientri la perdita netta è stata di 716.000 unità negli ultimi 15 anni, di cui il 72% giovani e 200.000 laureati.
L’ultimo rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno, da cui derivano questi dati allarmanti nella loro categoricità, si apre con queste parole: “Il Sud non è più un’area giovane né tantomeno il serbatoio di nascite del resto del Paese e va assumendo tutte le caratteristiche demografiche negative di un’area sviluppata senza peraltro esserlo mai stata”.
Al danno quindi si aggiunge la beffa.
La questione demografica in tutto il paese, ma ancor più drammaticamente se si guarda al Sud, non è un esercizio statistico e tantomeno è un destino. E’ piuttosto un determinante fondamentale nella storia di un territorio, perché ne condiziona lo sviluppo, grava sui conti pubblici, condiziona la produttività e soprattutto mette a dura prova la coesione sociale e generazionale.
Se è pur vero che stiamo descrivendo tendenze e non dati fattuali, è anche innegabile che queste impietose proiezioni demografiche, non fantasiose ma scientificamente supportate, dovrebbero suggerire politiche adeguate a fenomeni di tale straordinaria portata, mentre a fronte di un diluvio di dati, statistiche, proiezioni, previsioni che alimentano una convegnistica meditante e documentata, sembra non succedere assolutamente nulla, rievocando il pericolo della fin troppo conosciuta metafora della collisione tra il transatlantico e l’iceberg.
Ma in un’Italia che invecchia, è per tutti e dappertutto la stessa cosa? Invecchiare al Nord o al Sud è la stessa cosa?
A sentire l’Istat nel suo 26° Rapporto annuale esistono differenze regionali allarmanti se non immorali, perché molte tra esse suggeriscono cause sulle quali sarebbe e dovrebbe essere possibile intervenire: non si tratta in altre parole di fatalità ma ancora una volta di conseguenze di scelte e politiche.
Secondo le stime, nel 2017 la speranza di vita alla nascita nel nostro paese è di 80,6 anni per gli uomini e 84,9 per le donne. Se si considera il totale della popolazione, in provincia di Firenze si registra il valore più elevato (84,1 anni) mentre nelle province di Napoli e Caserta il più basso (80,7 anni).
Complessivamente, lungo la dorsale che va dal Nord-Est all’Italia centrale, si registrano i valori più elevati di vita attesa, valori che si riducono man mano che si procede verso il Mezzogiorno: nascere a Napoli o a Caserta significa avere 3 anni e mezzo di aspettativa di vita in meno di chi nasce a Firenze!
E ancora più marcato è il gradiente fra Nord e Sud se si considerano i livelli di sopravvivenza in buona salute, condizione in cui le differenze possono raggiungere e superare anche i 10 anni, come accade fra la provincia di Bolzano e la Calabria e la Basilicata.
Anche la sopravvivenza senza alcuna limitazione funzionale a 65 anni presenta un gradiente geografico Nord Sud, con la Liguria ai primi posti in graduatoria e la Sicilia, neanche a dirlo, agli ultimi.
Inoltre, un’offerta sanitaria più centrata sui servizi destinati agli anziani caratterizza le aree del Nord e del Centro del paese, mentre profili di offerta fondati prevalentemente su assistenza ospedaliera e diagnostica e meno ad anziani prevalgono nettamente nel Sud e nel Lazio.
Questi pochi dati testimoniano di una forte differenza regionale e di una sostanziale diseguaglianza in salute, talmente accentuata da ribadire l’esistenza di due Italie a diritto “differenziato” che molto avrebbero da suggerire all’attuale discussione su autonomia e regionalismo!
Da quanto fino a qui argomentato si comprende come ciò che definiamo invecchiamento della società, a livello planetario, nazionale, territoriale, vale a dire nella dimensione di scala in cui decidiamo di osservarlo, rappresenta uno dei temi emergenti della contemporaneità, che non può essere ignorato e non si presta tantomeno ad essere subito.
La connaturata non visibilità delle dimensioni demografiche ha dato origine negli anni ad una “rivoluzione silenziosa” che rappresenta una delle maggiori sfide, attuali e future, che tutti i paesi, sviluppati e non, dovranno fronteggiare.
L’invecchiamento, che lo si voglia o no, è una condizione strutturale della nostra società con la quale dobbiamo dialogare e imparare anche culturalmente a convivere.
Abbiamo anche compreso che esso dipende perlomeno da due fattori co-determinanti, allungamento della sopravvivenza umana e bassa natalità. Quindi in sé non può essere considerato un processo negativo, perché la diminuzione della mortalità e la conseguente longevità rappresentano un successo sociale di innegabile valore, come fino ad un certo punto positiva culturalmente, perché legata ad un processo di autonomia e autodeterminazione, è stata la possibilità delle donne di controllare la propria fecondità.
Se invece volgiamo lo sguardo alle conseguenze dell’invecchiamento dobbiamo misurarci con eventi spesso non positivi che coinvolgono agni aspetto sociale, e che interrogano drammaticamente una politica restia a misurarsi con processi non solo di breve, ma anche di lunghissimo periodo.
Non sorprende dunque che un illustre economista, Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, abbia tenuto la sua Lectio Magistralis, in occasione del conferimento della Laurea ad honorem in Studi Statistici all’Università di Trento, proprio su “Il rischio di longevità e il cambiamento dell’economia” della quale ci piace riportare una significativa asserzione:
“Lo studio del rischio di longevità è affascinante, oltre che per la sua intrinseca
multidisciplinarietà, perché paradigmatico delle grandi sfide che si incontrano nello sviluppo delle conoscenze: misurare, spiegare, prevedere, intervenire”.
La demografia, meglio la bio-demografia, che ne rappresenta l’evoluzione multidisciplinare, misura, spiega, prevede, ma è la politica che può e deve intervenire riconoscendo il legame potente fra conoscenza, pratiche di “anticipazione” e strategie sociali.
Se la chiave che usiamo per interpretare la realtà sociale, economica e culturale del Sud, e in particolare della Campania, è l’invecchiamento, ci accorgeremo di qualche paradosso, inteso come ciò che contraddice l’opinione comune e che tuttavia può appare valido o ragionevole.
I dati statistici ci dicono che la Campania è la regione più giovane d’Italia, che la provincia di Napoli ha lo stesso primato in tutta la penisola e che in provincia di Caserta si colloca il comune che ha la percentuale più alta di giovani, Orta di Atella.
Tre primati nello spazio limitato di un territorio regionale!
I dati disponibili ci dicono anche che abbiamo l’attesa di vita più breve del paese, con uno scarto di tre anni rispetto ad altri territori, che invecchiamo peggio, con a disposizione meno anni di vita liberi da malattia, e che il tasso di mortalità infantile regionale e tra i più alti della penisola con l’amaro primato assoluto conquistato da Caserta.
Per quanto ancora godiamo dell’essere nella realtà demografica, e nell’immaginario collettivo, la regione più giovane del paese, veniamo descritti dal CRESME, il centro di ricerche economiche e sociali del mercato dell’edilizia, attraverso il suo sistema informativo previsionale socio-demografico, tra le regioni che nel futuro prossimo perderanno più abitanti, mentre Napoli tra i comuni capoluogo è quello che ha il bilancio più negativo con 164.000 abitanti in meno entro il 2036, cioè tra meno di venti anni.
Primati anche questi, ma di valore molto diverso e apparentemente contraddittori rispetto ai precedenti.
Eppure in questi pochi dati c’è forse tutta la storia economica, sociale e politica del Sud e, se le cose non muteranno, le ragioni dell’annuncio di un definitivo declino, come si affanna drammaticamente a prefigurare lo Svimez, sulla scorta peraltro di una robusta documentazione scientifica e non di un pensiero catastrofista.
In cosa dunque può servirci d’ausilio il fenomeno dell’invecchiamento indagato a queste latitudini?
Al Prof. W. James Vaupel, fondatore e direttore del Max Planck Institute for Demographic Research di Rostock in Germania, dobbiamo il merito culturale di aver concepito un approccio multidisciplinare alla demografia che ha praticamente rivoluzionato una dottrina fino ad allora rigida e statisticamente monodimensionale.
Primo fra tutti, ha infatti introdotto un nuovo campo di ricerca, la bio-demografia che mette in relazione i molteplici fattori che determinano l’invecchiamento, e costruito nuovi concetti, quale la demografia evoluzionistica e la plasticità della longevità.
Questo per dire che l’invecchiamento non è una malattia, ma un evento multifattoriale e dinamico, perché esso stesso in continuo mutamento, anche concettuale. E nel contempo rappresenta una dei maggiori fattori di trasformazione di ogni dimensione delle società future.
Per prima cosa quindi dovremmo destrutturare e reinterpretare proprio il concetto di invecchiamento, spogliandolo di tutte le concrezioni negative che lo assediano e smontando uno ad uno, e sulla scorta dell’esperienza reale, tutti i pregiudizi che lo accompagnano, non alimentando un dibattito pubblico che continua ad insistere solo sulla ossessiva contabilità dei “costi dell’invecchiamento” e degli oneri ad esso legati.
Piuttosto appare necessario transitare evolutivamente da un criterio di vecchiaia verso un concetto di longevità come estensione della vita, e non sua deprivata appendice, come durata nel tempo in cui per lunghi anni si conservano capacità, conoscenze, desideri passioni.
La longevità dunque non come onere ma dividendo sociale, perché, se solo ribaltiamo il punto di vista, quello che definiamo con un algido termine statistico aspettativa di vita, può rappresentare un evento socialmente ed economicamente positivo.
Se solo mutiamo prospettiva, l’invecchiamento potrà rappresentare non la catastrofe che incombe sul nuovo millennio, e che in quanto tale alimenta senza sosta l’”ageismo” come razzismo di nuovo conio, ma, reinterpretata come longevità, una risorsa per questo tratto attuale della millenaria storia dell’umanità.
Affidare unicamente al mercato lo sguardo in grado di cogliere tutte le opportunità di questo mutamento demografico, coniando le strategie rapaci della silver economy che guarda a queste generazioni come il vero serbatoio di nuovi profitti, significa smarrire il senso multidimensionale ed anche esistenziale di un evento non a caso definito epocale.
Ma se tale è, dovrà indurci a capovolgere le prospettive e leggerlo come l’evento mutante ed evolutivo di un “bionte umano” alla ricerca di nuovi equilibri.
Inseguendo questa suggestione, che ha fondamenti tutt’altro che a-scentifici, per atterrare nuovamente in Campania, è possibile intravedere una “utopia ragionevole”.
Nessuno infatti ci tirerà fuori dallo sprofondo dei dati che ci inchiodano ad un primato negativo demografico, economico, sociale che non smentisce mai la sua ricorrenza.
Le statistiche ci urlano da anni che abbiamo uno dei peggiori sistemi sanitari del paese, che la nostra infrastrutturazione sociale e assistenziale è inesistente, che la recessione economica è una tragica immanenza, che invecchiamo perché non abbiamo più voglia di nascere qui, che ci ammaliamo senza poterci curare, che se non più autosufficienti conosciamo solitudine e abbandono, che figli e nipoti se ne vanno senza nemmeno conservare la voglia di ritornare.
Non sarà certo una trasformazione e un adeguamento marginale dei sistemi di welfare a fornire risposte a bisogni in evoluzione e aderenti alle trasformazioni demografiche in atto.
Solo una narrazione diversa può salvarci. E allora proviamo a partire da questo poderoso cambiamento demografico per cambiare anche noi, in senso evolutivo. Una diversa concezione dell’invecchiamento può agire ad esempio da straordinario fattore di mutamento di un sistema sanitario confezionato su bisogni di una società in trasformazione e suggerisce di investire su altri e nuovi modelli di salute.
Ospedali e case di riposo non possono rappresentare la risposta a chi chiede di non invecchiare su una panchina, ma di essere aiutato dai più moderni saperi della scienza a percorrere in salute i numerosi anni di cui sono fatte la terza e la quarta età.
Coniughiamo allora, ad esempio, in progetti credibili e fattibili la prospettiva di longevità dei nostri cittadini con il diritto alla longevità dei nostri splendidi territori interni mobilitando le energie, le conoscenze, i saperi dei nostri anziani in esperienze intergenerazionali che riproducano quella continuità antropologica che rischiamo di perdere per sempre.
E candidiamo nel contempo la nostra regione ad essere luogo di ricerca e sperimentazione dei nuovi campi di studio che connettono discipline innovative come la medicina P 3, l’age tech, la robotica, la geroscienza e quant’altro fermenta nelle fabbriche dei nuovi saperi.
Galileo Galilei, da uomo del rinascimento, suggeriva che “dietro ogni problema c’è una opportunità”.
Se l’invecchiamento è un problema, la scienza della longevità, nelle sue molteplici dimensioni, può rappresentare una opportunità per le vite dei singoli, e per lo sviluppo, l’economia, l’innovazione delle comunità future.
Credo che un territorio come il nostro, in bilico sul crinale del declino, non debba arrendersi alla demografia come destino, ma debba reinterpretarla come potente stimolo evolutivo al cambiamento.
Abbiamo tutto ciò che è necessario per farlo!
Antonella Pezzullo, nata a Napoli il 15.01.1954 .Medico e Psicoterapeuta. Laureata a Napoli all’Università Federico II. Specializzata in Oncologia clinica e Psichiatria. Dirigente del Servizio Sanitario Regione Campania. Dirigente sindacale della CGIL dagli anni ’80, ha coperto gli incarichi di: Segretaria della Camera del Lavoro di Napoli dal 1996 al 2001, Segretaria della CGIL Campania dal 2001 al 2008, Segretaria generale dello SPI CGIL Campania e Napoli dal 2008 al 2018.
Attualmente è Segretaria dello SPI CGIL Nazionale per il quale segue le politiche sanitarie e sociali e quelle per il Mezzogiorno